Il costo implicito della retorica sovranista

scritto da il 12 Ottobre 2018

L’autore è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e membro del consiglio direttivo dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) –

Tra le tante ripercussioni della globalizzazione il Nation branding è probabilmente una delle meno note. La crescente interconnessione dei mercati e la diffusione su scala mondiale di tendenze, modelli di consumo e stili di vita ha trasformato le identità nazionali in brand.
Un brand è “una combinazione unica di caratteristiche e valori aggiunti, sia funzionali che non funzionali, che assumono un significato simbolico, la cui comprensione potrebbe essere consapevole o intuitiva” (Keith Dinnie), un “cluster di idee culturali strategiche” (J. Lynch, L. de Chernatony) che differenzia un’impresa, un servizio, un prodotto, o qualsiasi altra cosa possieda un valore economico, dai suoi omologhi.

Le identità nazionali dispongono di un retaggio e di un patrimonio culturale infinitamente più ricco di qualsiasi azienda, prodotto o servizio, perciò si prestano a processi di brandizzazione.
Sino all’ultima ondata di globalizzazione questi processi avevano riguardato esclusivamente il piano socio-politico e lo “scontro di civiltà”: la Guerra Fredda sotto molti aspetti è stato il primo scontro tra brand morali e culturali globali.

A partire dagli anni ’90, però, dovendo promuovere le proprie eccellenze sui mercati internazionali, gli Stati hanno iniziato ad adottare strategie di marketing culturale, sviluppando l’equivalente di vere e proprie brand identity. Dietro alla leadership tedesca nel settore della meccanica di precisione, come dietro a quella francese nell’industria del lusso o a quella inglese nel comparto dei servizi finanziari c’è una complessa rete di simbolismi e una lunga tradizione che i rispettivi Paesi hanno saputo valorizzare.

Quello che Salvini fa finta di non capire è che l’Italia non è l’America di Trump. Noi non siamo il primo produttore di petrolio al mondo né il primo esportatore di armi, non abbiamo un’industria del carbone e dell’acciaio con una tradizione secolare, non ci identifichiamo nelle muscle cars.

L’Italia non produce “tombini di ghisa” e “ruspe”.

Il principale interlocutore della nostra economia è proprio quella classe creativa globale contro cui si scaglia periodicamente il ministro dell’Interno: quelle persone che hanno studiato la nostra storia e vogliono venire a vedere la Cappella Sistina o il Colosseo, S. Maria in Fiore o Pompei, San Gimignano o Matera, le tele di Caravaggio o il David di Michelangelo; quei consumatori che sanno attribuire il giusto valore alla differenza tra una sedia di IKEA e una di design, tra una Fiat 500 e una Dacia Sandero o tra l’olio nordafricano e l’extra-vergine toscano, umbro o pugliese; quegli investitori in cerca di creatività, innovazione, ingegno, bellezza.

Un mercato potenziale da più di 3 miliardi di individui, milioni di imprese e decine di migliaia di miliardi di euro.

L’inclusività, l’esterofilia, la tolleranza, la curiosità, la sensibilità, la kalokagathìa (l’ideale di perfezione estetica e morale) sono asset strategici per l’Italia, perché sono i valori in cui si rispecchiano i nostri potenziali clienti e interlocutori, perché fanno parte della nostra tradizione storica, dell’apparto simbolico della nostra cultura.

Il nostro Paese non è ricco di risorse naturali e ha il costo dell’energia per usi industriali più alto d’Europa, non può competere con il costo della manodopera cinese né con la produttività tedesca.

Avremmo bisogno di posti di lavoro a medio/alto reddito, a basso impatto ambientale, ad alto valore aggiunto. Avremmo bisogno di investimenti infrastrutturali, di piani di riqualificazione industriale, di partnership strategiche, di un progetto complessivo teso a valorizzare il nostro patrimonio culturale.

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Ma perché una multinazionale dell’high tech dovrebbe impiantare una struttura di ricerca e sviluppo in un Paese che manifesta diffidenza, quando non aperta ostilità, nei confronti della scienza e del progresso?

Il turismo non è solo un comparto importante dell’economia italiana ma anche una vetrina in cui esporre la nostra way of life, con cui fidelizzare i consumatori esteri a quel senso del gusto che poi ritroveranno nei nostri prodotti. Qui, però, non vengono in vacanza i redneck ma la borghesia urbana. Venezia, Firenze, Roma, Milano, Napoli non sono città low cost come Budapest o Praga, le Dolomiti e le coste sarde attraggono un turismo d’élite rispetto a Las Vegas o alle Haway.

Perché persone istruite e benestanti dovrebbero fare turismo di nicchia o turismo culturale in un Paese xenofobo, chiuso in sé stesso?

Il brand Italia vale 2000 miliardi di euro e le 4A (Alimentari-vini; Abbigliamento-moda; Arredo-casa; Automazione-meccanica-gomma-plastica) rappresentano gran parte del surplus commerciale nazionale. I brand del made in Italy si sono affermate a livello mondiale nel segno della qualità, dell’eleganza e della raffinatezza.

Ma quale idea di qualità, eleganza e raffinatezza può esprimere un modello socio-culturale egoista e materialista come quello sovranista?

Persino le tante imprese, in prevalenza PMI, che si sono conquistate importanti nicchie di mercato in settori avanzati dell’industria pesante o dell’industria leggera ad alta intensità tecnologica non hanno nulla da guadagnare da una ristrutturazione del brand Italia.

Aziende come Salini Impregilo o Fincantieri macinano commesse in settori difficili e competitivi anche grazie all’immagine di sé che l’Italia proietta nel mondo. Un fiore all’occhiello del tessuto produttivo italiano come IMA ha trasformato l’internazionalismo in un fattore identitario. ENI e Leonardo hanno fatto della capacità di mediazione e dell’attitudine al dialogo un punto di forza strategico e redditizio.

Il leader della Lega, tutt’altro che insensibile alle istanze del mondo imprenditoriale, vorrebbe compensare il costo implicito del rebranding sovranista con un drastico alleggerimento della pressione fiscale per le imprese e i professionisti, che dovrebbe garantire al tessuto produttivo un vantaggio competitivo apparentemente ben più pragmatico. Gli esempi più compiuti del modello di sviluppo auspicato da Salvini, però, dimostrano che la politica fiscale da sola non basta.

L’Irlanda, il più importante paradiso fiscale al mondo e una delle economie europee più competitive, ha costruito il suo successo accoppiando aliquote fiscali favorevoli a politiche globaliste, progressiste.

Questo perché qualsiasi business complesso ormai ha anche esigenze culturali complesse. Se, perciò, ha veramente a cuore il futuro del Paese, l’attuale uomo forte della politica italiana dovrà saper conciliare le priorità strategiche del sovranismo transnazionale, a trazione americana, con quelle socio-economiche del tessuto produttivo italiano, riuscendo a preservare il consenso elettorale.

E potrebbe rivelarsi una triangolazione tutt’altro che facile.

Twitter @enricomariutti