Perché serve tassare i patrimoni (in Italia e non solo)

scritto da il 07 Novembre 2018

Un nuovo spettro si aggira per l’Europa. Il populismo? No, le tasse. Dall’agognata flat-tax di Salvini alla recente riduzione delle aliquote di Macron, dall’accordo Merkel-Schulz di inizio anno sino alle promesse di Theresa May: la riduzione delle tasse sembra l’unico obiettivo capace di mettere d’accordo in modo trasversale la classe politica europea. Paradossalmente, ciò sembra riscuotere consenso anche tra le fasce sociali che più beneficerebbero di un welfare state generoso, il quale non può che mantenersi sulle imposte.

L’incomprensibile paura delle tasse

Nei paesi economicamente più sviluppati la tassazione è generalmente progressiva, cioè colpisce relativamente di più chi detiene più ricchezza o percepisce redditi maggiori, mentre a beneficiare dell’erogazione dei servizi del welfare – voce costituente oltre il 50% della spesa pubblica in Italia – sono solitamente le classi sociali meno abbienti. Un sistema di imposte simile porta sul piano teorico ad una redistribuzione delle risorse. Questa semplice intuizione è verificata anche sul piano empirico, come testimonia il seguente grafico prodotto dall’istituto Piee di Washington.

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Fonte: elaborazione del PIIE su dati OCSE

Le barre orizzontali scompongono l’indice di Gini (misura del livello di disuguaglianza) dei Paesi dell’Ocse nelle sue determinanti: la barra blu indica la disuguaglianza effettiva, la barra gialla misura come aumenterebbe la disuguaglianza in assenza di tassazione e la barra rossa misura lo stesso aumento in assenza di spesa pubblica. Da questa rappresentazione, non solo si evince che l’attività redistributiva dello Stato è un fattore cruciale nella riduzione delle disparità di ricchezza, ma anche che il contributo della tassazione è largamente preponderante rispetto al contributo della spesa sociale, in modo coerente in tutti i Paesi considerati.

Le tasse hanno per definizione un effetto restrittivo sull’economia, ma risultano indispensabili per coprire le spese dello Stato di cui tutti beneficiano e per garantire una riduzione delle disuguaglianze, prodotte dalle differenti condizioni di partenza degli individui e dalle forze di mercato. Pertanto, piuttosto che dichiarare una discutibile guerra alle tasse in sé – magari teorizzando gli improbabili effetti della curva di Laffer – è più opportuno valutarle in modo obiettivo riferendosi ai due principi che tradizionalmente guidano la letteratura economica in materia di tassazione: equità ed efficienza. Da una parte, le tasse devono essere eque e ricadere maggiormente su chi ha più disponibilità economica; dall’altra devono rispondere a criteri di efficienza economica, minimizzando gli effetti restrittivi su ciò che produce crescita per molti e pesando su ciò che produce rendite per pochi.

Come testimoniato in letteratura economica, infatti, spostare il carico fiscale dai flussi (come gli investimenti) agli stock (come i patrimoni immobilizzati) permette inequivocabili vantaggi in termini di efficienza.

Perché in Italia serve una patrimoniale

Nel nostro Paese un’imposta complessiva sul patrimonio è assente, mentre la tassazione dei beni di proprietà è frammentata in numerose piccole imposte e bolli, per un gettito complessivo pari al 2,7% del Pil. La voce principale riguarda i beni immobili, sebbene la prima casa ne sia esente.

Diversi studi dell’Ocse ritengono opportuno introdurre una patrimoniale in Italia. Per quanto riguarda l’equità, un aspetto correlato che tocca da vicino il nostro Paese è la riduzione delle disuguaglianze. Su questo fronte i dati sono molto chiari: il 43% della ricchezza è appannaggio del 10% più ricco della popolazione. Allo stesso tempo il 20% più povero detiene lo 0,3% della ricchezza e l’8,4% degli italiani si trova oggi in condizione di povertà assoluta (valore in continua crescita dal 2005).

Un’imposta patrimoniale avrebbe dunque un significativo effetto nella riduzione della disuguaglianza, sia nel momento del prelievo sia nel momento della spesa. Ridurre le disuguaglianze è oggi un obiettivo assai rilevante, soprattutto perché avrebbe un effetto positivo non solo su coloro che beneficiano della redistribuzione nell’immediato, ma anche, nel lungo periodo, sulla società nel suo complesso: diversi studi, infatti, suggeriscono che laddove sono registrati più alti livelli di disuguaglianza la mobilità sociale è più bassa e la crescita è più lenta.

Tuttavia, la riduzione delle disuguaglianze e i benefici ad essa correlati non sarebbero l’unico effetto positivo di una simile misura. I proventi di una patrimoniale fornirebbero una capacità di spesa immediata, che potrebbe essere sfruttata dallo Stato per ridurre gli oneri fiscali dei ceti meno abbienti o per fornire maggiori servizi pubblici. Partendo dal principio di efficienza della tassazione già accennato, a nostro avviso in Italia lo spazio fiscale fornito da una patrimoniale andrebbe concentrato su una rimodulazione di altri tipi di imposte: da un lato la riduzione del carico fiscale sui redditi delle persone fisiche, specialmente sui redditi medio-bassi, dall’altro la riduzione del carico contributivo sui datori di lavoro. In questo modo si avrebbe non un aumento, ma una rimodulazione del carico fiscale, la quale, a parità di gettito, creerebbe condizioni più favorevoli per lavoratori e imprese.

Per quanto riguarda la prima possibilità, in Italia la tassazione sui redditi delle persone fisiche ammonta all’11% del Pil, tra le più alte dei Paesi Ocse insieme a Danimarca, Francia, Belgio. Liberare risorse per alleggerire questi tributi sarebbe quindi auspicabile, soprattutto alla luce della lenta crescita del reddito disponibile, tuttora al di sotto dei livelli pre-crisi.

Per quanto riguarda invece la diminuzione dei contributi a carico dei datori di lavoro, che fanno parte del cosiddetto “costo del lavoro”, essa si potrebbe dimostrare una mossa efficace per due motivi: in primo luogo attualmente l’Italia ha i contributi a carico del datore di lavoro tra i più alti dei Paesi Ocse (dopo Francia, Belgio, Repubblica Ceca e Belgio, per un totale pari all’8,7% del Pil) e dunque una loro riduzione ci avvicinerebbe alla media europea, rendendo il nostro Paese un luogo più favorevole agli investimenti sia nazionali che esteri. In secondo luogo, la storia recente ci ha dimostrato come lo sgravio contributivo operato all’interno delle misure del Jobs Act sia stato una misura efficace per incentivare la crescita dell’occupazione in Italia. Tuttavia, una delle maggiori limitazioni di quella misura era la sua natura temporanea e non strutturale: i proventi di una imposta patrimoniale potrebbero invece essere indirizzati ad una riduzione permanente del costo del lavoro, con effetti positivi in termini di occupazione e di crescita economica.

La patrimoniale come questione globale

Sebbene un’introduzione della patrimoniale in Italia sia auspicabile (e come attuarla sarà materia di un nostro prossimo articolo), è ancor più opportuno considerare il fenomeno in chiave globale. Come suggerito dall’economista francese Thomas Piketty, infatti, un’imposta globale sulla ricchezza sarebbe ben più efficace di un singolo intervento a livello nazionale.

Ciò che spesso rende difficili gli interventi in materia fiscale è il rischio di fughe di capitali all’estero. La capacità dei grandi investitori e delle imprese multinazionali di superare i confini nazionali, spostando patrimoni, investimenti o sedi legali, si scontra con una generale carenza di cooperazione internazionale in materia di tassazione. La mancanza di accordi mette gli Stati nazionali in una situazione di evidente debolezza: se riducendo le tasse ottengono investimenti a discapito degli altri Paesi, si instaura un meccanismo che produce concorrenza fiscale al ribasso, finché le tasse non divengono estremamente basse sulle risorse che possono spostarsi facilmente al variare delle aliquote (tipicamente, i grandi patrimoni e gli investimenti delle multinazionali) e più alte sulle risorse meno flessibili (i patrimoni del ceto medio e il lavoro), ostacolando il meccanismo redistributivo dello Stato.

Il problema è sentito in modo decisamente più forte in Europa, dove il mercato unico rende estremamente facili i flussi di capitale, mentre i livelli di tassazione sono del tutto eterogenei. Ancora una volta, la necessità di un’integrazione europea si dimostra un tassello fondamentale per gestire a livello politico e giuridico dei processi che sono già in atto, i quali, se lasciati evolversi senza il necessario intervento di un regolatore sovranazionale, rischiano di porre gli stessi Stati nazionali in una condizione di impotenza.

Invece di continuare a demonizzare le tasse, sarebbe quindi utile cominciare a ragionare anche in sede europea su come pianificare una complessiva imposta patrimoniale e su come potrebbero esserne impiegati i proventi, rimodulando il carico fiscale in modo più favorevole ad una crescita inclusiva.

Twitter @Tortugaecon