L’economia digitale e la fine delle gerarchie

scritto da il 21 Novembre 2018

L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –

Recentemente mi sono occupato dell’acquisizione di un noto settimanale in crisi, che testimonia il destino delle imprese esposte alle trasformazioni tecnologiche. Il declino della carta stampata non è certo una novità, e in fondo era già prevedibile agli albori di internet; più imprevedibile è stata l’incapacità dell’editoria digitale di riassorbirlo. I ricavi pubblicitari di tutta l’editoria digitale sono oggi meno della metà di quelli di Google e Facebook; dunque la flessione dei ricavi di migliaia di testate della carta stampata non è stata assorbita da altrettante e analoghe testate digitali, ma quasi esclusivamente da due sole imprese non editoriali. Peccato che lo stesso non sia avvenuto anche per i disoccupati del settore editoriale, dato che i contenuti di Google e Facebook sono generati gratuitamente dai loro utenti e dagli algoritmi nei computer di Mountain View e Menlo Park.

Ciò dimostra come la tecnologia trasformi non solo i prodotti e i servizi delle imprese, ma anche i loro modelli organizzativi e di business. L’aspetto forse più interessante delle trasformazioni indotte dall’economia digitale è il passaggio da un modello organizzativo piramidale e chiuso a un modello orizzontale e aperto. La produzione di molte imprese di nuova generazione si avvale infatti della cooperazione di lavoratori autonomi e volontari, non di dipendenti e fornitori. Gli “autonomi” sono i milioni di affiliati alle piattaforme di affitti brevi, di noleggio con conducente, di car sharing, di vendita online, di lavoro occasionale, di consegna di merci, di apps per smartphone e tablet, di blockchain mining. I “volontari” sono i miliardi di utenti dei social network, dei blog, dei sistemi open source, delle recensioni di alberghi e ristoranti, dei sistemi peer-to-peer.

Oggi si parla molto della perdita di posti lavoro che verrà dalla robotica e dall’intelligenza artificiale. Pochi parlano di quella in corso, che proviene dall’espansione del lavoro precario, sporadico e spesso (pure) gratuito, che oggi è forse il tratto più distintivo del lavoro nell’economia digitale, prima che i computer e i robot lo sostituiscano (quasi) del tutto. Su queste trasformazioni si può essere ottimisti, pessimisti o neutrali; ma non si può negare che provochino disagio e smarrimento. Oltre al disagio che proviene dalla dissoluzione delle comfort zones dei lavoratori e delle imprese, manca infatti un’idea rassicurante del futuro che li attende, ancor meno la fiducia di poterlo prevedere e scegliere.

L’ossessione delle previsioni sul futuro è un tipico tratto della modernità, anche se (o forse perché) è stata proprio la modernità a insegnare che il futuro è imprevedibile, sempre di più. Nelle più fataliste civiltà preindustriali era ragionevole immaginarsi un futuro molto simile al passato, eppure tutti si guardavano bene dall’azzardare previsioni, chinandosi inermi alla volontà di Dio. Nelle civiltà postindustriali e digitali è già difficile stare al passo con i tempi, tuttavia dilaga la smania di prevedere i cambiamenti – se non di “cambiare il mondo” – quando l’unico obiettivo sensato sarebbe di riuscire a non esserne travolti. Tant’è vero che le imprese più consapevoli che “è difficile fare previsioni, specialmente riguardo al futuro” sono proprio quelle più innovative e pronte a cambiare rotta al volgere del vento, sul modello delle lean startup.

I primi a liberarsi dall’ossessione delle previsioni sul futuro sono stati, curiosamente, i governi occidentali. Forse perché i sistemi capitalisti sono simili ai modelli aperti e orizzontali dell’economia digitale, essendo “piattaforme” di “utenti” che cooperano liberamente e senza gerarchie. In questi sistemi si è potuto constatare che le regole che riconoscono la libertà d’impresa e premiano i risultati funzionano assai meglio di quelle che si propongono di realizzarli; sicché gran parte dei governi liberali ha imparato a resistere alla tentazione della pianificazione, focalizzandosi sui diritti e sulle regole del gioco. Utilizzando il linguaggio abominevole degli aziendalisti si potrebbe dire che sono passati da un metodo “top down” a uno “bottom up”.

In confronto le teorie sulla corporate governance sembrano appartenere all’era sovietica. Nei codici e nei manuali di corporate governance non c’è nulla che parta dal basso, eccetto le procedure di whistleblowing, che tuttavia sono promosse dagli stessi soggetti che teoricamente dovrebbero essere segnalati. Il resto è un florilegio di interpreti e rappresentazioni della camera dei bottoni: il ruolo degli amministratori delegati, i doveri degli amministratori indipendenti, le responsabilità degli organi di controllo; come se l’organizzazione dell’impresa e i diritti dei suoi stakeholders (azionisti, dipendenti, collaboratori, clienti, fornitori) fossero irrilevanti. Chi ha avuto modo di partecipare ad autorevoli consigli di amministrazione si è forse goduto uno spettacolo di beauty contest keynesiano, ma ha anche capito che le decisioni vengono prese altrove, o comunque in modo diverso da quanto previsto dalle teorie sulla corporate governance.

D’altra parte la teoria economica dell’impresa risale agli anni trenta, con gli studi di Ronald Coase, che sosteneva che la ragione d’essere dell’impresa discende dall’incidenza dei costi di transazione nel mercato dei fattori produttivi. In altre parole l’impresa nascerebbe da un malfunzionamento del mercato; non dovrebbe sorprendere, quindi, se è retta da regole diverse. Tuttavia, il dubbio che il modello verticistico e fordista non fosse proprio ottimale incominciò a serpeggiare fin dagli anni cinquanta, con il successo del Toyota Production System, che restituì ai lavoratori un ruolo centrale nei processi produttivi. Ma il vero cambio di gioco avvenne con l’irruzione dell’economia dei servizi, che portò a una radicale riprogettazione dei modelli organizzativi partendo dal basso, nel solco del pensiero di Peter Drucker. Oggi il prodotto interno lordo dei paesi più avanzati è costituito prevalentemente da servizi, e i modelli organizzativi orizzontali e decentrati sono quelli dominanti.

La rivoluzione digitale ha abbattuto una nuova frontiera, aprendo i modelli organizzativi alle communities delle imprese digitali, senza imporre gerarchie, vincoli di orario e routine aziendali. Il governo di questi nuovi modelli aperti impone il distacco completo dall’ortodossia della corporate governance e la conversione a quella liberale, i cui strumenti sono le “mani invisibili” dei diritti e delle regole del gioco. Al tempo stesso bisogna riconoscere che non tutti apprezzano la conquista di queste libertà, e preferirebbero lavori più tradizionali, fondati sulla dialettica hegeliana servo-padrone, che sono senz’altro più rassicuranti sotto il profilo della stabilità. Tuttavia i tentativi di far rientrare questo genio nella lampada appaiono piuttosto vani, soprattutto nelle imprese digitali, dove per reclutare lavoratori “autonomi” e “volontari” basta un click.

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