Globalizzazione: frutto saporito o mela avvelenata?

scritto da il 11 Dicembre 2018

L’autore di questo post è Corrado Griffa, manager bancario ed industriale (CFO, CEO), consulente aziendale in Italia e all’estero, giornalista pubblicista –

I consumatori mondiali ringraziano per i dolci frutti della globalizzazione: ampia gamma di prodotti offerti a prezzi competitivi, spesso “stracciati” rispetto ai prezzi vigenti ante-globalizzazione; accesso a servizi una volta riservati ai ricchi, come viaggi turistici aerei verso località straniere. Settori una volta dominati da “player” nazionali e strutturati come mercati nazionali hanno assunto una dimensione ed una struttura sovra-nazionale e globalizzata.
“The name of game” è globalizzazione.

Il punto è: esiste solo una “buona” globalizzazione o ce n’è anche una “cattiva”?

Per i “buonisti” la globalizzazione dovrebbe rispondere ed assicurare criteri razionali e generali, quali:

1. Un insieme di regole condivise sulla buona produzione e sul buon commercio, tali da assicurare ai lavoratori, indipendentemente dai paesi dove lavorano e vivono, condizioni almeno equivalenti in termini di sicurezza ed accesso a servizi basilari (sanità, igiene, …);

2. Un equilibrio fra chi sviluppa tecnologie e chi le utilizza; in termini macro-economici, si parlerebbe del principio di equivalenza fra ricavi marginali e costi marginali: il produttore avrà convenienza a produrre nel paese A, e non nel paese B, sino a quando i vantaggi saranno superiori agli svantaggi; superato tale rapporto, per il produttore sarà più conveniente andare a produrre nel paese B;

3. La globalizzazione si basa su una valutazione, e quindi decisione, dei vantaggi competitivi dei sistemi-paese: sviluppare nuove tecnologie è più efficiente ed efficace in paesi come USA od Israele, dove il fattore capitale ed il fattore intelligenza sono largamente disponibili e quindi utilizzati nel modo più adeguato; produrre in paesi asiatici dove il fattore lavoro è più economico diviene elemento discriminante per produzioni ad elevata intensità di lavoro, a minor costo comparato;

4. L’accesso dei consumatori ad una gamma ampia di prodotti e servizi, indipendentemente da chi li fornisce e dove questi sono forniti;

5. Il rispetto, in sintesi, del concetto di “level playing field”: le stesse regole valgono per tutti i giocatori.

Il consumatore italiano dovrebbe quindi essere assai felice di andare a fare la spesa e comprare il tablet o lo smartphone di ultima generazione ad un prezzo oggi molto più basso e non comparabile con il prezzo pagato 10 o 20 anni fa, e lo stesso vale per un bel giubbotto in gore-tex, un cappotto all’ultima moda, una paio di scarpe hi-tech; ma qualora il nostro consumatore fosse divenuto disoccupato a seguito della chiusura, per trasferimento della produzione in Asia, dello stabilimento dove lavorava cucendo il cappotto che ora viene cucito da un lavoratore asiatico, alla felicità si sostituisce repentinamente lo scoramento per la nuova condizione, e molte domande vengono a galla sulla bontà, o meno, di questa globalizzazione.

Fino a che punto i vantaggi della globalizzazione superano, a livello generale (più difficile valutare a livello individuale), gli svantaggi?

Tale valutazione è oggettiva, o può risultare inficiata dalla posizione occupata lungo la piramide sociale di chi la effettua, divenendo così soggettiva?

Quello che abbiamo sotto gli occhi non è nuovo; è una situazione che già in passato si è presentata all’umanità; ci limitiamo qui ad un rapido riferimento alla storia di coltivazione, produzione, commercializzazione del cotone, mirabilmente delineata e descritta ne “L’impero del cotone” di Sven Beckert.

E restando nel settore del tessile e della moda, così cruciale per il nostro paese tanto da essere definito come il più tipico “made in Italy”, troviamo ampia materia di esame e valutazione dalla visione del recente servizio televisivo “Pulp Fashion” di “Report” su Rai3.

Chi avesse la benevolenza di vedere il servizio scoprirebbe una realtà assai diversa da quella evocata dai “buonisti”; scoprirebbe infatti che nelle fabbriche cinesi che hanno sostituito le officine italiane ed europee le condizioni di lavoro, sanitarie, di sicurezza sono assai lontane dai proclami contenuti nelle brochure delle “grandi marche” che dispensano sostenibilità della produzione, rispetto per l’ambiente, lavoratori trattati coi guanti bianchi, utilizzo di materiali eco-sostenibili e sicuri per i lavoratori ed i consumatori; siamo distanti dagli standard imposti alle fabbriche italiane; ci si ritrova scaraventati in un girone infernale che ricorda i lontani tempi dei tumulti dei Ciompi di fiorentina memoria medioevale.

I grandi marchi della moda italiani, francesi, spagnoli, svedesi, statunitensi hanno delocalizzato le produzioni, ora non più “in-house” ma lasciate ad operatori terzi in paesi (opportunamente) distanti. La controprova arriva da quanto avviene alla fiera che si tiene stagionalmente a Paris le Bourget dove migliaia di espositori presentano i tessuti utilizzati per la realizzazione di capi che verranno venduti nelle maggiori piazze del mondo: su 2.000 espositori, i 2/3 sono asiatici, tra cui mille cinesi e solo 2 italiani.

Che cosa resta, allora, del “made in Italy” (come del “prodotto francese”, spagnolo, svedese …) se tessuto e manifattura non vengono più dal nostro paese ma la loro filiera è tutta (o largamente) fatta all’estero? Il consumatore che cosa compra? Forse un “sotto il marchio nulla”.

Scopriamo una “cattiva” globalizzazione che distrugge lavoro di qualità, od almeno a standard accettabili, in paesi avanzati e tradizionalmente produttivi e crea lavoro di bassa, spesso infima, qualità in paesi lontani, con ricadute negative, a breve termine sulle condizioni di lavoro, a medio e lungo termine sulla salute dei lavoratori e sulla qualità dell’ambiente.

Detto in altri termini, per un obiettivo di breve termine le imprese mettono a rischio la sopravvivenza e la sostenibilità a lungo termine. Col concorso, esplicito od implicito, dei governi, delle associazioni di categoria delle imprese e delle burocrazie dei paesi che perdono e dei paesi che acquistano produzioni. Un suicidio annunciato e realizzato, quello della manifattura europea ed italiana in particolare.

Ci dobbiamo allora porre alcune domande, fra le tante che potrebbero emergere:

1. Questa situazione è reversibile? È possibile mitigare gli effetti negativi sinora prodotti?

2. Il “reshoring”, il ritorno in patria di lavorazioni oggi fatte in paesi lontani, è una risposta fattibile e perseguibile? Quanto sta perseguendo l’amministrazione USA è una strada ripetibile per l’Italia e l’Europa?

3. È stato un errore accettare la Cina nel WTO? Siamo stati mal consigliati ed indotti ad accettare nel sistema del commercio mondiale un paese che non rispetta le “regole del gioco”? Il danno fatto è rimediabile? In che modo? I governanti europei ed italiani ne sono consapevoli?

4. Quanto rilevato nel settore tessile e della moda è presente anche in altri settori? Probabilmente la risposta è “sì”: ed allora occorre agire per mettere fine al suicidio della manifattura europea ed italiana; ricordando che l’alternativa non può essere, seppure evocata da truppe cammellate gialloverdi e “gilets jaunes”, il reddito di cittadinanza europeo.

Twitter @CorradoGriffa