Regionalismo differenziato: tutti gli errori da non commettere

scritto da il 16 Gennaio 2019

Il Governo ha recentemente anticipato i prossimi step che dovrebbero portare alla concessione di maggiore autonomia alle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Entro febbraio, la proposta dell’Esecutivo dovrebbe arrivare alle suddette Regioni, per giungere alla prima attuazione del cosiddetto regionalismo differenziato.

Con l’avvicinarsi dell’evento, cresce il dibattito accademico e mediatico. Il rischio -richiamato su questi pixel– è di un inasprimento delle tensioni territoriali. Una situazione che farebbe male al Paese e che andrebbe evitato, considerata la già difficile situazione economica-finanziaria.

Recentemente è stata pubblicata l’edizione 2018 del rapporto “La finanza territoriale in Italia” (Rubbettino Editore). Gran parte del rapporto è stata dedicata al tema del regionalismo differenziato, con diversi contributi specifici sull’argomento. Tanti gli spunti interessanti, conditi dai numeri, dai quali fuoriescono molti dubbi su quale sarà il nuovo assetto istituzionale dell’Italia nei prossimi decenni.

Uno degli aspetti più importanti trattati nel rapporto concerne la materia sanitaria, vista come una sorta di esperimento di autonomia differenziata già in corso. «La salute, di fatto, rappresenta già una “sperimentazione” in materia di autonomia regionale, ambito in cui, è bene ricordarlo, non solo sono già stati definiti i Livelli essenziali di assistenza (Lea) ma in cui abbiamo la possibilità di attingere ai risultati dei primi monitoraggi». Così scrivono gli autori del contributo “Il regionalismo differenziato tra servizio universale e specificità territoriali”.

La figura mostra abbastanza chiaramente la situazione problematica di molte Regioni.

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È poi il contributo di Garganese, Pacifico e Goffredo ad affrontare specificamente il tema della sanità, comparando in particolare le esperienze delle Regioni Puglia ed Emilia-Romagna. Dal confronto basato sui dati del Programma nazionale esiti (PNE), si evidenzia un netto ritardo delle strutture pugliesi.

A livelli di LEA, ecco invece la situazione del periodo 2012-2016. La stessa mostra ancora una volta differenze molto significative, per non dire inaccettabili.

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La parte centrale dello studio è dedicata al capitolo risorse. Per prima cosa viene evidenziata la dipendenza delle Regioni dai contributi statali.

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La tabella mostra la maggiore dipendenza delle Regioni meridionali dai contributi statali, dovuta principalmente ai maggiori ricavi di natura diversa che riescono a generare le Regioni del Nord (ad es. ticket sanitari o mobilità interregionale).

E i maggiori ricavi consentono livelli di spesa maggiori. Con tutto ciò che ne consegue in termini di qualità del servizio.

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Le differenze sono sicuramente dovute ad una maggiore capacità organizzativa e manageriale di alcune Regioni rispetto ad altre. Ma anche i criteri di ripartizione delle risorse possono assumere grande rilevanza. Essendo la quota capitaria assegnata dallo Stato basata sulla popolazione residente e sui parametri di età e genere, gli autori evidenziano come ciò -nel confronto esaminato- penalizzi la Puglia rispetto ad una ripartizione “secca” basata solo sulla popolazione residente.

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La differenza è di quasi tre miliardi in meno in tredici anni. Come sottolineato dagli autori, sarebbe ingiusto sostenere che la ripartizione secca sia di per sé preferibile rispetto a quella pesata. Il punto è un altro. Le scelte su come ripartire le risorse comportano conseguenze e, spesso, sono tutt’altro che neutre. Ne avevamo scritto in un altro pezzo dedicato alla ripartizione futura decisa per il Fondo di solidarietà comunale. Altra ripartizione che potrebbe generare effetti distorsivi (come evidenziato dalle simulazioni della Corte dei Conti).

Per evitare un’antipatica e faziosa escalation delle tensioni territoriali, sarebbe opportuno che il Governo prendesse cognizione del fatto che, prima di procedere con le assegnazioni di nuove competenze alle Regioni, si dovrebbe chiarire la questione delle risorse, non relegandola alle commissioni paritetiche. All’uopo potrebbe servire anche una legge attuativa dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Una legge che miri a garantire il rispetto dei principi costituzionali in materia di coordinamento della finanza pubblica.

In assenza di ciò, il rischio è che il processo si fermi per motivazioni di equilibri politici. Con conseguente perdita dei possibili benefici di un modello maggiormente attento alle esigenze locali.

Oppure che si vada avanti a forza di strappi muscolari. E sarebbe anche peggio.

Twitter @frabruno88