La Corte costituzionale, le pensioni e i risparmi con l’elastico

scritto da il 08 Maggio 2015

La morale della storia mi appare evidente non appena finisco di leggere la lunga sentenza della Corte Costituzionale che ha imposto al governo di restituire con gli interessi le somme non erogate ai pensionati, in virtù dell’obbligo di rivalutazione, per gli anni 2012 e 2013.

La morale della storia è che quelli sulle pensioni sono risparmi con l’elastico. E quando tornano indietro fanno molto male, come dimostra la cronaca dei nostri giorni.

E questo non succede perché la Corte Costituzionale sia cattiva o insensibile. Ma perché abbiamo costruito nei decenni un sistema di regole, giuridiche o giurisprudenziali, che di fatto vanifica ogni possibilità di agire sulle pensioni.

Se anche il governo decidesse di agire, come pure dice di voler fare, rischia sempre di trovare sempre un giudice, sia esso civile, contabile, amministrativo o costituzionale (dulcis in fundo), che potrà invalidare quanto deciso. Per la semplice ragione che l’edificio della (im)previdenza pubblica è tanto barocco quanto inespugnabile. E la sentenza della Corte Costituzionale ne è un preclaro esempio.

Oggetto del contendere, nella fattispecie, è il meccanismo della perequazione automatica che fu impiantato nel sistema previdenziale nei generosi anni ’60, che proseguirono la fase incrementale e profondamente diseguale del welfare italiano impiantata negli anni ’50.

La perequazione automatica, infatti, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903 e poi modificata con l’art.19 della legge 30 aprile 1969, n. 153, che previde di agganciare gli aumenti delle pensioni all’indice del costo della vita calcolato dall’Istat, ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria.

Questo regime andò avanti fino al 1992, quando fu varato il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 che stabilì la periodicità annuale degli adeguamenti perequativi e che sganciò la perequazione dalla dinamica salariale, collegandola al livello medio dell’inflazione. Ma sempre con l’elastico, visto che all’articolo 11 della stessa norma si previde che “ulteriori aumenti potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia”.

Un altro cambiamento intervenne nel 1998 (legge 23 dicembre 1998, n. 448). All’epoca i politici si preoccuparono persino di “di tutelare i trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione”.

Confesso che non riesco a capire quali possano essere queste “erosioni del potere di acquisto anche in assenza di inflazione“.

Si decise, insomma, che le pensioni dovessero aumentare a prescindere dall’inflazione. In pratica un meccanismo di rivalutazione automatico che funziona, spiega la Corte, “in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo”.

Tanta generosità fu emendata due anni dopo (legge 23 dicembre 2000, n. 388), in modo che la rivalutazione automatica spettasse per intero “soltanto per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo Inps“. Per le altre fasce la rivalutazione era ridotta.

Nessuno si lamentò, ovviamente.

Tantomeno quando nel 2007 (l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81) si previde per il triennio 2008-2010 una perequazione al 100% anche per la fasce di importo fra tre e cinque volte il minimo (prima era il 90%).

La storia delle sospensioni degli adeguamenti perequativi è altrettanto articolata.

Sempre nel 1992, ma a settembre, si dispose il blocco degli adeguamenti “in attesa della legge di riforma del sistema pensionistico e, comunque, fino al 31 dicembre 1993”. E tuttavia in sede di conversione del decreto, a novembre, “si provvide a mitigare gli effetti della disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco della perequazione, bensì quale misura di contenimento della rivalutazione”. Si arrivò così al provvedimento di dicembre ’92 che abbiamo visto.

Ci fu un risparmio, insomma, ma anche stavolta con l’elastico.

Tanto è vero che a dicembre 1993 (legge 24 dicembre 1993, n. 537) si provvide, ricorda sempre la Corte, “a restituire, mediante un aumento una tantum disposto per il 1994, la differenza tra inflazione programmata ed inflazione reale, perduta per effetto della dell’art. 2 della legge n. 438 del 1992”.

Prima della norma ora bocciata dalla Consulta c’era stato un altro tentativo (nell’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247) di fermare temporaneamente la rivalutazione delle pensioni, limitato però ai trattamenti superiori a otto volte il minimo.

Anche allora qualcuno di questi signori con pensioni superiori a otto volte il minimo, aveva fatto causa. La Corte decise con sentenza 316 del 2010, ponendo in evidenza “la discrezionalità di cui gode il legislatore, sia pure nell’osservare il principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza delle pensioni”.

In quell’occasione i ricorrenti non la spuntarono, perché “le pensioni di importo piuttosto elevato, presentavano margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo”.

Nella stessa sentenza del 2010, tuttavia, la Corte aveva “indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità”. Ciò in quanto “le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”.

Ma torniamo all’attualità.

La Corte ci ricorda che la norma bocciata “il blocco integrale della perequazione opera, quindi, per le pensioni di importo superiore a euro 1.217,00 netti”.

Ed è questo che la Corte contesta: “Le modalità di funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere sui trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo”, con l’aggravante che “non solo la sospensione ha una durata biennale: essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato”.

Ne deduco che la Corte abbia una sua idea su quando un importo pensionistico si debba ritenere più o meno elevato. E mi chiedo se sia lo stesso che ha in mente il governo.

A peggiorare il danno la constatazione che la norma bocciata si differenzia dalle norme passate e da quelle che sono venute dopo.

A dicembre 2013 (legge 27 dicembre 2013, n. 147), infatti, si previde per il triennio 2014-2016, l’azzeramento della perequazione automatica per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014, mentre per le altre tornò a valere il principio della perequazione per fasce.

La tecnicalità della perequazione, ricorda ancor la Corte, dipende “dalle scelte discrezionali del legislatore”, ma sempre in aderenza con i principi costituzionali. Tanto è vero che “questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli”.

Ne deduco che governo e Parlamento possono legiferare nell’ambito dello stretto sentiero della giurisprudenza costituzionale che, come ogni, cosa, è soggetta all’arbitrio e non appellabile.

Da qui la decisione finale: “Sono stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività».

Quindi due anni di mancata rivalutazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo ha pregiudicato il potere d’acquisto dei pensionati, frustrando le loro aspettative di vita.

Ma è la premessa alla bocciatura che bisogna tenere a mente: “Questa Corte si era mossa in tale direzione ritenendo di dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida in misura notevole e in maniera definitiva sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale”.

Attenzione: non basta fare un generico riferimento, qualora si decidesse di tagliare, alla “contingente situazione finanziaria”. Deve emergere “dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi”. Ossia la politica deve dire perché vuole tagliare proprio la previdenza, se vuole provare a farlo. Altrimenti il diritto dei pensionati ad avere una pensione adeguata viene sacrificato “nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.

Spero non serva un default della previdenza per convincere i nostri supremi giudici.

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