Il caso Fincantieri conferma: in Italia non esiste la certezza del diritto

scritto da il 01 Luglio 2015

La magistratura di Gorizia ha messo sotto sequestro cautelare quattro aree produttive del cantiere di Monfalcone (il più grande in assoluto) della Fincantieri. L’accusa è di illecito nello smaltimento dei rifiuti. In particolare, secondo il pubblico ministero, le ditte subappaltatrici non sono in possesso delle necessarie autorizzazioni, per cui si è creato un “deposito incontrollato” che, anche se non nocivo o inquinato, è sanzionabile dal decreto legislativo 152/2006. Le conseguenze non sono da poco: 4.900 operai sono a casa (1.600 di Fincantieri, 3.400 di indotto), poiché se non si possono smaltire i rifiuti di lavorazione, non si può procedere alla costruzione delle navi, che Fincantieri con fatica ha portato a casa a livello di ordini. Sono a rischio tre commesse da 1,8 miliardi.

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È rilevante sottolineare che il contraccolpo sul conto economico di Fincantieri è duplice: ricavi mancati mentre i lavoratori vanno pagati (è stata subito chiesta la cassa integrazione per correre ai ripari) e le penali da ritardi. Quando si firma il contratto per la costruzione di una nave da crociera da mezzo miliardo di euro, il cliente necessita dell’assoluta puntualità della consegna poiché nel frattempo ha già venduto ai turisti le crociere future. Fincantieri che nel tempo ha guadagnato credibilità nella certezza dei tempi di consegna ha grandi problemi.

Siamo in una situazione ben diversa dall’Ilva, sia ben chiaro.

Emerge però ancora una volta una cultura anti-impresa, un riflesso antropologico per cui l’impresa “è brutta e cattiva”. Il sistema di smaltimento adottato da Fincantieri è lo stesso negli altri cantieri italiani, in tutta Europa e anche nei cantieri norvegesi acquistati anni fa dal gruppo cantieristico.

Emerge in modo mastodontico il tema della certezza del diritto. L’arbitrarietà dell’interpretazione delle regole rendono l’imprenditore sempre passibile di sanzioni (nel caso Fincantieri, neppure un ammonimento preventivo), senza che vengano analizzate le conseguenze economiche dei provvedimenti d’urgenza.

Possibile che alcuni magistrati non si pongano il problema della salvaguardia della poca occupazione buona che c’è e non riescano a percorrere strade diverse dalla decapitazione dell’impresa? Ci si può impegnare a trovare soluzioni meno cruente? C’è da dire, in verità, che la legislazione non aiuta né chi indaga né chi giudica. Perfino la recente legge sugli ecoreati ha sì fatto passi avanti, ma resta fondalmente una norma punitiva, nata già vecchia, con troppi elementi discrezionali, come ha ben spiegato sul Sole 24 Ore Jacopo Giliberto.

La conseguenza di questa realtà è che quando la Presidenza del Consiglio e il Ministero per lo Sviluppo Economico si prodigano per migliorare la percezione degli investitori mondiali affinché decidano di impiantare uno stabilimento in Italia, altri Paesi in concorrenza con noi hanno buon gioco nel dimostrare alle multinazionali che venire in Italia non conviene. Poi non sorprendiamoci se gli investimenti diretti dall’estero (IDE) languono.

Il 28 maggio scorso, nella relazione annuale, il presidente di Confindustria Squinzi aveva spiegato come “i reati ambientali non nascono dal caso ma da una cultura, da un abito mentale diffuso che pensa ancora all’imprenditore come a un nemico della collettività”. Il presagio è stato, purtroppo, corretto.  http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-05-20/passi-avanti-e-difetti-legislazione-doppia-faccia-100414.shtml?uuid=ABq3QOjD&fromSearch

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