Uber piace davvero a molti, ma quanto è sopravvalutata?

scritto da il 24 Agosto 2015

Pubblichiamo un post di Carlo Muzzarelli, esperto di risk assessment e startup. Dopo una lunga carriera in General Electric nel 2013 fonda WeRISK, azienda specializzata nella formazione e consulenza aziendale. Rappresenta l’Italia nel Working Group ISO31010 – 

LA FACCIATA DI UBER È FUTURISTICA, MA LE FONDAMENTA?

di Carlo Muzzarelli

Dopo le pagine della cronaca Uber sta ricominciando a occupare quelle economiche grazie al nuovo round di finanziamento che valuta la società 51 miliardi di dollari e la pone nettamente in cima alla lista delle startup oltre il miliardo di dollari.

Secondo la definizione data da Steve Blank nel 2010 una startup è “un’organizzazione creata per cercare un modello di business scalabile e ripetibile”. Tra gli esempi di successo più famosi, con enormi valutazioni, ci sono Facebook, Dropbox, Github, Palantir e Paypal; mentre i fallimenti più recenti sono Zirtual, Secret e Circa. Le ragioni per le quali le startup falliscono sono quasi tutte riconducibili alla definizione di Blank: non hanno saputo/potuto scalare il modello di business, oppure questo non era ripetibile.

Tasche profonde e piene
A livello teorico il modello di Uber è chiaramente ripetibile in ogni nazione dove esistono persone che si spostano in auto e privati cittadini che le possiedono. È scalabile aumentando il numero di Paesi/città serviti e la quota di mercato in ogni città. Nessuno può dire se nel mercato globale ci sia spazio per un secondo player, ma le indicazioni sui volumi permettono di ritenere estremamente improbabile che possano esistere più di due aziende globali.

I concorrenti (Didi Kuaidi, GrabTaxi, Lyft e OLA) hanno una valutazione complessiva pari al 42% di Uber e questo fa ritenere probabile una “unione” che crei un singolo soggetto “anti-Uber” attivo in un numero di Paesi molto più ampio e con un mercato ben sviluppato, soprattutto in Asia, continente nel quale Uber è ancora a livelli minimi.

La scalabilità del modello di business di Uber, elemento fondamentale della sua valutazione, non è quindi certa, e al momento si basa principalmente sulle strategie di sussidio agli autisti. Proprio per questo la domanda che si pone Stefano Quintarelli sull’uso che Uber farà delle proprie enormi risorse finanziarie è preziosa per introdurre il resto dell’analisi.

Nonostante l’alleanza con un’azienda potente come Baidu, Uber sta spendendo fino al triplo di quello che incassa per svilupparsi nel mercato cinese, dove Didi Kuaidi è il market leader indiscusso. Nessuno esterno all’azienda conosce la burn rate (denaro speso mensilmente per l’operatività) di Uber ma se anche solo una parte delle indiscrezioni è vera i capitali necessari alla sopravvivenza dell’azienda sono enormi.

L’altro più probabile utilizzo del denaro di Uber sono le spese di lobbying necessarie per vincere le resistenze degli attuali gestori del mercato, taxi e noleggi con conducente autorizzati. Oltre a questo, però, c’è in gioco anche qualcosa molto più grande di Uber, una preoccupazione sulla quale si cominciano a interrogare in molti: le altissime valutazioni delle aziende tecnologiche indicano che siamo di fronte a una bolla speculativa?

Innovazione 2.0: le bolle ora sono nel mercato privato
Durante un evento organizzato dal Wall Street Journal a giugno per discutere sull’esistenza o meno della bolla, quattro oratori su cinque hanno spiegato che le aziende tecnologiche quotate hanno tutte solidi parametri finanziari e fatturati in linea con le dimensioni aziendali. Pertanto, non c’è nessuna bolla speculativa in atto.

Lisa Buyer, la manager che ha gestito la quotazione in Borsa (Initial public offering o Ipo) di Google e ha grande esperienza come investitore e analista, era la voce fuori dal coro e ha sostenuto che “proprio per le ragioni elencate dai miei colleghi sono convinta che ci sia sicuramente una bolla speculativa. È molto selettiva e sta colpendo il mercato privato, non quello pubblico [azionario]”.

Ha ragione Buyer? Sì, e Uber, che non è ovviamente il solo caso, lo dimostra perfettamente.

Ecco un altro utilizzo dei soldi in dotazione a Uber, che non è necessariamente gestito in modo indipendente dagli investitori: impedire che un rallentamento operativo o una riduzione della valutazione della tessera più grossa del domino delle startup tecnologiche inneschi il panico nelle Borse, scatenando un ribasso del mercato simile a quello che ha seguito la bolla dot-com.

Valutare un’azienda quotata è un’attività complessa e soggettiva, ma per le aziende con bilanci certificati ci sono dei parametri di riferimento per creare valutazioni sufficientemente affidabili. L’EBITDA (earnings before interests, taxes and amortization ovvero utili prima degli interessi, delle imposte e degli ammortamenti su beni materiali e immateriali) è considerato da molti il migliore ed è infatti quello utilizzato per giustificare la valutazione di Uber.

Il problema è però che Uber non ha bilanci certificati e che sia le proiezioni che i moltiplicatori utilizzati sono totalmente irragionevoli per un’azienda che ha concorrenti agguerriti e opera in un mercato fortemente regolamentato, come potete leggere qui e qui.

“Divide et impera”
Volendosi limitare ai criteri di valutazione classici Uber è quindi pesantemente sopravvalutata. È possibile che tutti coloro che hanno investito in Uber siano sprovveduti? Ovviamente no.

E allora?

Allora siamo di fronte a un caso pratico di investimenti con protezioni multiple: oltre a ridurre la minaccia di una perdita si aumenta la probabilità di conseguire guadagni elevati grazie a una serie di situazioni di asimmetria informativa e conseguente moral hazard.

Una delle protezioni è di lungo periodo e si basa sull’esistenza dell’euristica di ancoraggio alla quale saranno soggetti coloro che desidereranno investire in futuro. Se aziende di grande importanza come Baidu, Blackrock, Google Ventures, Microsoft, Tata, Qatar Investment Authority hanno investito centinaia di milioni di dollari in Uber quando non c’era alcuna certezza che avrebbe avuto successo, come si fa a dubitare della valutazione che hanno dato dell’azienda ora che produce anche risultati finanziari?

Una protezione di breve periodo è quella di sfruttare il fenomeno chiamato FOMO (Fear Of Missing Out). Operazioni di marketing e brand recognition ricordano a tutti che Uber può diventare la prossima Facebook e quindi cercare di entrare il prima possibile è vantaggioso economicamente e anche come operazione di marketing. Un esempio è dato dall’investimento fatto dal Venture Capital Benchmark nel Round C di Uber nel 2013, che ha permesso all’azienda di essere considerata uno degli investitori più importanti del settore applicazioni per smartphone.

La terza protezione è descritta in un articolo sul Round C. TPG Growth ha pagato le azioni meno degli altri investitori, nonostante abbia avuto un posto nel consiglio di amministrazione. Considerando che uno degli investitori era Google Ventures, che con quell’investimento aveva realizzato la sua maggiore operazione fino ad allora, la domanda è lecita: come mai?

Tutti gli investitori sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri
È ormai consuetudine che le startup scendano a patti con gli investitori: voi accettate le nostre valutazioni e noi vi proteggiamo dalle possibili conseguenze negative. Il caso più classico è quello di compensazione monetaria o mediante azioni integrative se il prezzo post quotazione è più basso di quello pagato dall’investitore.

Per aziende ancora lontane dall’Ipo, dal debutto sui listini azionari, come al momento è Uber, la clausola scatta nel momento in cui l’azienda si trova a ottenere capitali a valutazioni inferiori a quelle alle quali ha venduto a investitori precedenti. Un altro metodo di protezione è la senior liquidation preference che permette di avere la precedenza nella restituzione del capitale investito prima di tutti, impiegati compresi.

L’ultima protezione, che assomiglia alla clausola anti-diluizione, ma non lo è, permette di acquistare azioni ad un prezzo più basso di quanto fissato nel round quando si è riusciti a coinvolgere un altro investitore.

Molti osservatori, tra i quali chi scrive, ritengono che Uber stia utilizzando questi sistemi a livelli mai sperimentati prima sul mercato.

Ricordando che Uber è una startup, nella valutazione non può essere trascurato l’alto livello di pericolo rappresentato dalle numerose battaglie legali in diversi paesi del mondo, con esiti molto spesso negativi. Su Google è facile trovare il lungo elenco di cause contro l’azienda di San Francisco: al primo posto c’è la causa dei collaboratori per rivendicare di non essere collaboratori indipendenti. Il numero di cause è talmente elevato che c’è persino una voce di Wikipedia sull’argomento.

Tiriamo le somme
Prendendo in considerazione tutti questi fattori, una valutazione ragionevole di Uber, eseguita con un metodo molto semplificato e utilizzando assunzioni estremamente generose ma razionali, è la seguente, basata sui dati disponibili per il 2014:

Mercato globale dei taxi = 22 miliardi di dollari;

Quota mercato globale attuale di Uber = 9% (sulla base della proiezione di 2 miliardi di fatturato per il 2015);

Rateo di crescita mercato globale = 15%;

Crescita quota di mercato = 30% annuo;

Rapporto Revenues/Earnings = 40% (mantenuto costante sui 5 anni, assunzione molto generosa).

Sulla base di questi valori il Net Present Value (o Valore Attuale Netto) dei profitti nei prossimi cinque anni, con un tasso di sconto del 30% a coprire tutti i rischi dei quali abbiamo parlato, è di 4,110 miliardi di dollari.

Con un moltiplicatore EBITDA di 8, l’unico razionalmente usabile in una situazione del genere, il valore di Uber arriva a 32,9 miliardi. Quindi la sopravvalutazione attuale è del 55 per cento.

Twitter @muzzarca