Europa in bilico tra amico americano e Cina, che cosa rischiano i nostri soldi?

scritto da il 04 Dicembre 2015

Quando si valuta il rischio di un investimento sovente il punto di attenzione principale riguarda il “rischio mercato” fortemente legato al “rischio Paese”. L’apertura dei mercati di sbocco e il quadro normativo di riferimento di un Paese sono infatti elementi essenziali nel poter definire il profilo di rischio-rendimento di un investimento e conseguentemente esprimerne un rendimento atteso.

Tutto questo però oggi risulta in forte evoluzione. Risulta infatti più corretto parlare di rischio geopolitico, infatti il futuro della ricchezza di una nazione dipenderà dalla leadership della propria classe dirigente e quanto questa sarà in grado di creare ed alimentare i presupposti di una sana crescita per il proprio tessuto produttivo costituito da imprese. Tale ragionamento, come si accennava, necessita di un’evoluzione, difatti non è più il Paese ma la regione geografica d’appartenenza – nel nostro caso l’Europa – che assume la capacità di influire sulle variabili economiche che determinano il livello di prodotto interno.

Il profilo geopolitico diventa quindi molto attuale e l’interesse dei grandi blocchi geografici dovrebbe essere proprio quello di poter creare un mercato globale delle democrazie, dove le regole e gli standard sono condivisi e convergenti nel favorire la creazione di un nuovo sistema che, così come suggerito in più occasioni dal professor Carlo Pelanda, esperto di geopolitica economica, potremmo chiamare “Free community”.

La necessità di superare i localismi ed aprirci al pensare “globale” emerge dalla situazione, sempre in evoluzione, dei nuovi equilibri geopolitici in atto. Cerchiamo di percorrere i fatti più significativi.

Come anche molti osservatori hanno evidenziato, il ruolo del WTO si è notevolmente ridimensionato e le sue attività risultano oramai bloccate da anni. Inoltre gli Stati Uniti non sono più la superpotenza che era in grado di imporre la propria linea politica e parallelamente Europa e Paesi emergenti e, ovviamente, l’America, stanno stringendo accordi bilaterali per favorire il commercio. Tale fenomeno però porta alla creazione di multi-poli di nazioni che presentano interessi più facilmente convergenti tra loro.

In questo quadro il ruolo della Cina è in trasformazione ed è caratterizzato da un forte desiderio di passare dalla Cina “operaia” alla Cina “borghese”, con buona pace del PCC. In termini più eleganti, potremmo dire che il modello di sviluppo economico desiderato dalla Cina verte sullo sviluppo del consumo domestico. Ad oggi però non di semplice attuazione senza la costruzione di ponti con l’occidente.

La visita di fine ottobre scorso del Presidente Cinese Xi Jinping nel Regno Unito ha sancito un’alleanza di interessi ed un riconoscimento reciproco del ruolo di “partner primario” che però ha di fatto indebolito la capacità dell’Europa di affermare la propria leadership. Se guardiamo ai dati della World Bank sull’import-export commerciale nel 2014, risulta evidente che il peso del Regno Unito è superato dalla Germania.

Fonte: Elaborazioni The Smart Institute su dati World Bank

Fonte: Elaborazioni The Smart Institute su dati World Bank

Inoltre osservando i dati in aggregato emerge che è proprio l’Unione Europea a rappresentare il principale partner commerciale della Cina, rispetto ad esempio agli Stati Uniti, come mostrato dal seguente grafico:

Fonte: Elaborazioni The Smart Institute su dati World Bank

Fonte: Elaborazioni The Smart Institute su dati World Bank

Ecco che per creare i ponti con l’Occidente, il primo passo è sempre quello di abbattere le barriere doganali ma soprattutto quello di investire nella creazione di passaggi verso nuovi mercati di sbocco. Così la Cina, nella ricerca di una crescita dell’export, ha firmato recentemente il protocollo di intesa OBOR (One Belt, One Road) con l’obiettivo di creare le infrastrutture necessarie – via terra e via mare – per realizzare la famosa “via della seta” che la colleghi con l’Europa.

Nell’ambito di questo quadro si legge l’interesse delle due regioni nell’individuare sinergie tra il Piano Juncker (che ha come obiettivo dichiarato la generazione di investimenti per circa 315 miliardi di euro) e il piano OBOR. L’Europa da parte sua parteciperà all’Asia Infrascructure Investment Bank (AIIB), ma i dettagli degli accordi rimangono ancora da definire, comunque entro il 2015.

Gli Stati Uniti si ritrovano così in forte competizione con la Cina per il controllo e l’egemonia sul blocco economico più grande del globo.

Se da una parte gli USA sono partiti in anticipo, puntando alla firma degli accordi TPP e TTIP (si ricordi che la sola area riguardante il TTIP produce il 45% del PIL mondiale), la Cina ha appena ottenuto il riconoscimento di superiorità strategica con l’entrata dello Yuan tra le valute di riserva (come definito dal FMI).

Dal punto di vista geopolitico, quindi, il Piano OBOR rappresenta un valido contrappeso alle iniziative statunitensi sugli accordi commerciali bilaterali. Ma come osservato prima, il ruolo di “first mover” del Regno Unito ha finito per indebolire la capacità di coordinamento del resto dei paesi UE con la Cina stessa, anche in termini di standard da garantire e livelli richiesti di trasparenza per le iniziative di AIIB.

Il quadro geopolitico si compone però anche di un altro tassello, per ora sempre a vantaggio della Cina, riguardante il controllo dei passaggi marittimi sul Mare della Cina del Sud e dei collegamenti con Filippine, Vietnam, Taiwan. La Cina rimane fortemente orientata al sottrarsi ai principi – appartenenti invece alla cultura europea – di un diritto marittimo ispirato alla libera circolazione delle navi. Infatti con gli accordi commerciali bilaterali fin qui sviluppati, la Cina cerca di deviare l’attenzione sul tema della “cooperazione economica”. Ma quando si va a guardare quanto verde è l’erba del vicino, risulta inevitabile l’apertura di un dibattito sul grado di rispetto dei diritti umani, altro tema che la Cina non intende affrontare. Il rischio strategico per l’Europa riguarda proprio la salvaguardia di interessi e valori europei senza perdere l’opportunità cinese.

Paradossalmente questi rischi sono gli stessi che hanno portato al continuo slittamento degli accordi TTIP da parte dell’Europa.

Giustamente l’Europa non deve cedere alla tentazione di smontare gli standard qualitativi sia di prodotto sia di governance economica, anche in merito alla protezione intellettuale degli investimenti, solo per accondiscendere alle richieste dei capitali cinesi.

Quello che manca in questo quadro è un profilo di autorevolezza rappresentato da una politica economica europea unitaria. Il rischio è che la ricchezza e il benessere del nostro Paese, quindi dell’Europa, dipenda dalle implicazioni delle mosse fatte su una scacchiera globale che hanno influenza sulla redditività delle imprese nostrane e quindi sul nostro benessere. In effetti l’attrattività degli investimenti si basa sulla redditività attesa delle imprese, sia che guardiamo ai mercati quotati sia per il private equity.

Questo è il vero rischio geopolitico: la differenza tra un legame forte tra Europa unitaria e Cina aggressiva per il tramite di una credibile “via della seta” e, al contrario, un legame rappresentato da un leggero “filo di seta”.

Twitter @pasqualemerella