Da sharing a responsive, l’economia è nel bel mezzo di una rivoluzione (pacifica)

scritto da il 10 Gennaio 2016

Pubblichiamo un post di Massimiliano Guzzini, vicepresidente e business innovation director di iGuzzini, società marchigiana prima in Italia e leader in Europa nel settore dell’illuminotecnica

POSSIAMO RIDEFINIRE LA SHARING ECONOMY E CHIAMARLA RESPONSIVE? 

di Massimiliano Guzzini

“L’economia nasce ogni giorno da idee brillanti.” Questo messaggio, che ho condensato in un tweet, riassume bene il mio pensiero circa la responsive economy.

La rapidità con cui idee innovative si tramutano in realtà sociali ed economiche è un qualcosa di straordinario. La rete le diffonde e le gestisce, alla velocità di un click.

Viviamo un nuovo rinascimento e mai quanto ora l’economia è legata a fattori individuali oltre che sociali. Mi sento di dire che siamo partecipi tutti di una fase di grande evoluzione/rivoluzione e e la convivenza tra i vari sistemi economici è un aspetto che sicuramente merita approfondimento.

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– Da sharing a responsive

Al principio fu la sharing economy. Dall’idea comune di condivisione, sono nate declinazioni diverse per spiegare o coniare economie nuove, come ad esempio la pooling economy, la circular economy, e molte altre ancora.

Il mio tentativo è quello di fare un passo indietro per tornare all’elemento comune, cercando di racchiudere e sintetizzare, in un’unica definizione macro, le tante micro-economie da essa generate.

Abito in città e voglio andare in vacanza al mare. Tu abiti al mare e vuoi venire in città a visitare musei. Niente di più semplice: scambiamoci la casa, l’auto e tutto quanto ciò di cui si ha bisogno per vivere in quel luogo. È come scambiarsi una city/home-identity card e si vive nella realtà ciitadina/domestica dell’altro.

È uno scambio di fiducia, senza transazione economica. Organizzazioni di questo tipo esistevano già decenni orsono.

Poi arriva la crisi economica: rottura tra capacità di spesa ed offerta. La gente si concentra su beni e necessità essenziali e demanda le spese secondarie a un’idea di condivisione.

Partire per un viaggio condividendo con altri le spese di carburante e pedaggio. Questo è possibile appartenendo alla comunità digitale che offre questo servizio. Ciò genera una nuova domanda, costituita da coloro che, altrimenti, non avrebbero intrapreso spostamento alcuno.

L’opportunità non è solo economica. È possibile scegliere il profilo del compagno di viaggio, lo spazio a disposizione, il luogo di partenza e di arrivo, favorendo socialità e flessibilità.

E ancora: il crowdfunding è un modo per ricercare in una rete digitale e sociale, anziché in banca, le risorse finanziarie per partecipare ad un progetto. Si ha un bisogno e la comunità risponde.

Si crea così una responsive economy, ossia un’economia che si autosostiene nel trovare risposte immediate a una necessità: l’economia che reagisce al bisogno e non lo crea. È questa la vera rivoluzione.

Schermata 2016-01-10 alle 18.36.33Il car sharing è un ottimo esempio di responsiveness di sensibilità e reattività. Ho bisogno di un’auto: prendo il mio smartphone, scelgo la Car2go più vicina a me, la utilizzo e la parcheggio esattamente nel punto di mia destinazione. In questo modo la rimetto a disposizione di una comunità che ne può usufruire. Così facendo non sono tenuto a comprare una nuova auto, non occupo spazio privato o pubblico quando non è utilizzata, non devo sostenere costi quando è ferma.

Così ho trasferito l’acquisto di un bene in acquisto di un servizio “a tempo utile” e ho eliminato i costi del non-uso. Questa è un’economia assolutamente sostenibile, a basso costo per l’utente e per la collettività. Il car sharing non offre una macchina al consumatore ma un trasporto a colui che non vuole acquistare l’automobile perché preferisce utilizzarla soltanto quando gli è indispensabile.

Nella responsive economy non esiste il consumatore di un bene perché essa smaterializza i beni, sostituendoli con un “tempo di utilizzo”. La responsive economy si autogestisce. E il minor costo è sinonimo non di bassa qualità ma di accresciuta consapevolezza.

L’economia “sensibile” è figlia della sostenibilità. Non si creano nuove strutture ma si mettono a disposizione quelle esistenti. Il mancato costo di acquisto e possesso è il vero guadagno di chi sceglie di agire in questo tipo di economia.

La responsive economy si basa sul presupposto di fiducia, di rispetto reciproco e di condivisione di un bene o di uno spazio. Valori che generano ottimismo. L’appartenere ad una comunità sharing è “social”, è un manifesto di adesione a una nuova società a carattere transnazionale, a un movimento culturale e sociale diffuso su scala mondiale eppure molto centrato sul territorio.

È, passatemi il termine, una “rivoluzione pacifica” nei confronti dell’economia tradizionale.

La sharing economy è anche cool. Personalmente ho scelto di alloggiare con Airbnb a Madrid e in altre capitali e ho piacevolmente scoperto che anche un viaggio di lavoro può divenire “domestico”. Idem, ho saggiato con Blablacar il gusto di scegliere i miei vicini di sedile, personalizzando così la mia esperienza di viaggio.

Pochi mesi fa ero negli negli Stati Uniti, a Washington DC, e ho scoperto che nelle ore di punta esistono corsie preferenziali per le “auto collettive” (car pooling): lo Stato ha investito nell’innovazione sociale. La responsive economy crea nella sinergia il suo valore. E credo fortemente che questa declinazione dell’economia ne abbia ufficializzato una forma trasversale in cui tutti possiamo diventare soggetti economici, passivi o attivi, usufruendo o offrendo liberamente l’uso di beni mobili o immobili e servizi.

– La responsive economy va regolamentata?

Se ci soffermassimo a considerare la responsive economy solo per il suo aspetto romantico, saremmo davvero miopi. In verità sono nate micro-imprenditorie dall’indole sicuramente sociale ma pur sempre con un conto economico. Uber ha un valore di oltre 60 miliardi di dollari ed ha un peso assolutamente rilevante nel panorama economico. È cronaca quotidiana l’ostracismo nato per contrastare questa società. Dietro alla volontà di regolamentazione si nascondono aspetti di tassazione e di tutela del consumatore.

Per quanto riguarda la questione fiscale è necessario che anche l’attività legislativa debba muoversi alla velocità del cambiamento economico, altrimenti rischia di distruggere o comunque opporsi e rallentare il cambiamento che la società stessa chiede.

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Per quanto concerne, invece, la certificazione del bene o servizio offerto dalla responsive economy, io credo che non si debba cadere nella trappola protezionistica. La risposta è già nel termine identificativo di questa economia, ossia “responsive”. Essa ha già risposto al proprio bisogno di regolamentazione necessario per gli attuali beni/servizi scambiati. La responsive economy si autoregolamenta attraverso il sistema di feedback. Il giudizio espresso dagli utenti che hanno usufruito di quel bene/servizio, diviene il valore condiviso di garanzia. Fiducia sullo scambio e sui giudizi. Libero scambio di beni/servizi e di giudizi: eBay docet.

Fiducia e libertà, quindi.

La responsive economy è forse un nuovo esempio di “liberismo sentimentale”? Io, per ora, mi sento di rispondere affermativamente. Il modello del passaparola, dei feedback, digitalizzato e sistematizzato, crea una rete di fiducia necessaria affinché gli scambi tra sconosciuti avvengano in assenza di un’autorità esterna, di un ente terzo certificatore.

Certo, almeno ad oggi, questo sistema può valere per beni/bisogni semplici, nei quali ciascuno può esprimere un giudizio competente. Per prodotti complessi o ad alta tecnologia, invece, la certificazione terza e la regolamentazione dello scambio è ancora necessaria, garanzia di conoscenza competente in materia.

– La responsive economy e l’economia tradizionale possono coesistere?

Il punto di incontro tra l’economia tradizionale e la responsive economy, tuttavia, non credo consista nell’equiparazione del sistema di regolamentazione ma, piuttosto, nella convergenza su conoscenza e trasparenza.

Senza scomodare teorie accademiche mi viene da dire che solo attraverso un’economia aperta, basata su conoscenza e trasparenza, si crea equilibrio tra offerta e domanda, si alza l’asta della differenziazione di beni e servizi per rispondere a bisogni sempre più puntuali e specifici, e, infine, si favorisce l’innovazione e il benessere complessivo.

Nel presente continuo le due economie, tradizionale e responsive, possono così convivere, ciascuna con le proprie specificità. La responsive economy, intanto, ci insegna che la velocità di risposta, l’eliminazione del superfluo, la fiducia sono diventati valori entro cui si sviluppa un libero scambio non di beni ma di “tempi di utilizzo”.

Il vero prodotto responsive è una soluzione che contenga il massimo essenziale.

Twitter @MaxGuzzini