Adriano Olivetti, Umberto Eco e la classe dirigente che servirebbe

scritto da il 23 Febbraio 2016

Mancano pochi giorni all’anniversario della morte di Adriano Olivetti, avvenuta il 27 febbraio 1960, mentre l’imprenditore di Ivrea era in treno verso Lugano. Allora cogliamo l’occasione per raccontare una storia legata alle vicende societarie post Adriano. Sono in molti a pensare che il personal computer sia stato inventato in America nei primi anni Settanta, quando invece fu realizzato alcuni anni prima, in Italia, a Ivrea, alla Olivetti, all’interno del Programma 101, guidato dall’ingegner Pier Giorgio Perotto.

Il primo pc venne realizzato nel 1964 e presentato ufficialmente alla Fiera di New York nel 1965. Per l’epoca era una macchina straordinaria, prodotta quasi 10 anni prima dell’avvento dei microprocessori. Ne furono venduti circa 44mila esemplari negli Stati Uniti a un prezzo accessibile: 3.200 dollari, l’equivalente di quattro Fiat 500. Per l’Olivetti i margini di profitto si rivelarono enormi.

A pochi giorni dalla morte di Umberto Eco, ci fa piacere citare un suo passaggio su Olivetti: “Ricordo che il vecchio Adriano Olivetti, quando già si lavorava ai primi grandi computer, quelli che occupavano uno stanzone e funzionavano a valvole e schede perforate, assumeva certamente dei bravi ingegneri, ma non aveva esitazioni ad assumere un laureato che avesse fatto una tesi eccellente sui dialetti omerici” (Elogio del classico, L’Espresso, 10 ottobre 2013).

Il vero valore del P101, come sottolineato da Perotto, sta nell’aver creato una nuova dimensione, nell’uso dei calcolatori, “quella che è alla base dell’informatica come la conosciamo oggi” (P101. Quando l’Italia inventò il personal computer, Comunità Editrice, 2015).

 P 101 nello stand Olivetti al Bema (Business Equipment Manufactures Association), l'esposizione dei prodotti per ufficio di New York nell'ottobre 1965 (da Archivio Storico Olivetti)

Il P 101 nello stand Olivetti al Bema, l’esposizione dei prodotti per ufficio di New York, ottobre 1965 (Archivio Storico Olivetti)

Le grandi imprese in Italia ormai si contano sulle dita di una mano. Siamo condannati a rimanere piccoli o medi. È il nostro destino. Basta prenderne atto. L’economista d’impresa Marco Vitale di recente ha disegnato un quadro sull’Italia non entusiasmante: “Noi siamo quello che siamo. Un’economia di medie e piccole imprese, con le grandi imprese o distrutte (Olivetti) o emigrate (Fiat) o vendute (Pirelli), con un ordinamento che stimola le medie imprese a non crescere, con un mercato dei capitali asfittico (anche ora che nel mondo c’è una liquidità mai vista), con una classe imprenditoriale brava a fare ma non a governare, con un familismo impressionante, con una dipendenza dall’intermediazione bancaria enorme, con delle condizioni del credito bancario che presentano livelli di diversità inaccettabili a seconda delle dimensioni delle imprese e soprattutto dalla collocazione territoriale, con un livello di occupazione molto basso, con differenze territoriali di sviluppo generale drammatiche”.

È opportuno ricordare che l’amministratore delegato della Fiat (diventata azionista nel 1964 con Imi, Mediobanca, Pirelli e Centrale) Vittorio Valletta si oppose al salvataggio dell’Olivetti dopo la morte di Adriano Olivetti, figlio del fondatore Camillo. La condizione che pose per l’immissione di nuove risorse da parte del nuovo Gruppo di controllo fu la vendita della divisione elettronica. Nel verbale dell’assemblea della Fiat del 30 aprile 1964 si legge: “La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare senza grosse difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico, per il quale concorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare”.

Insomma l’elettronica un neo da estirpare, secondo il ragionier Valletta. Perotto scrive: “In realtà l’intervento della Fiat non fu motivato dall’obiettivo di controllare l’Olivetti, ma piuttosto dal desiderio di mettere in riga un diverso. Infatti la prescrizione di Valletta, ufficiosa ma imperativa, era sostanzialmente quella di togliersi dalla testa insane manie e di ricondurre la gestione entro i binari della buona tradizione; il riferimento all’elettronica era abbastanza evidente”.

Che classe dirigente! Tornano in mente le parole – lucidissime – di Raffaele Mattioli, presidente della Banca Commerciale Italiana, il miglior banchiere italiano, che nel 1972 scrisse: “Nel momento stesso in cui si vorrebbe poter già sapere chi si assumerà domani compiti di direzione e di guida […] appare indispensabile e in qualche misura preliminare, cercare di capire su che cosa il Paese si sia retto sinora, quale sia stato sin qui il suo tessuto connettivo, attorno a quali forze esso si sia ritrovato e in che misura. […] Tutto il periodo [dall’Unità al secondo dopoguerra] può in realtà configurarsi come una serie di occasioni e di tentativi diretti a dar finalmente vita ad una classe dirigente adeguata” (citato dal curatore Fabrizio Barca in Storia del capitalismo italiano, Donzelli, 1997).

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