Perché i voucher lavoro non sono il male assoluto e cosa c’è da fare per migliorarli

scritto da il 31 Marzo 2016

Ho letto con estremo interesse il post di Marta Fana sui voucher apparso su questi pixel, così come avevo guardato con piacere una puntata di Report di qualche tempo fa dedicata ai crescenti numeri del fenomeno dei “buoni lavoro”.

Come già illustrato, si tratta di uno strumento introdotto nel 2008 dal governo Prodi per cercare di regolarizzare rapporti di lavoro occasionali o saltuari che spesso finiscono nella piaga sociale del lavoro irregolare.

A otto anni di distanza dalla loro introduzione, i cinque Governi che si sono avvicendati nel tempo hanno allargato notevolmente la platea degli interessati, penetrando interi settori economici come l’edilizia o la ristorazione.

I numeri indicati nel rapporto del Ministero del Lavoro sono davvero rilevanti, con quasi 1 milione e mezzo di lavoratori interessati. È evidente – come sottolineato da diverse parti – che la gestione dello strumento è sfuggita di mano. Serviranno inevitabili correttivi al fine di evitare una tanto estrema quanto distorsiva precarizzazione del lavoro subordinato.

Cercando di offrire un contributo diverso sul tema, proverò a rispondere a due semplici domande:

1) Come siamo arrivati a questo punto, obbligati a dover scegliere tra rapporti contrattuali di lavoro costosissimi e forme iper-semplificate come i voucher?

2) Secondariamente, siamo sicuri che le soluzioni migliorative debbano sempre tendere verso l’estremo più negativo per la competitività del sistema?

I voucher sono figli di un costo del lavoro insostenibile 

Inutile dilungarsi troppo su un problema noto, su cui si è scritto e si scrive tanto. Un dipendente costa a un datore di lavoro molto più di quanto percepisca lo stesso lavoratore a fine mese, per un cuneo fiscale di circa il 50% della retribuzione (si vedano in proposito i relativi dati OCSE).

Tutte le voci di costo sono elencate nelle vostre buste paga, incluse quelle relative ai contributi previdenziali (generalmente 33% della retribuzione). Buste paga che appaiono giustamente molto magre al lavoratore, ma eccessivamente grasse al datore. Tutti scontenti quindi, a causa del Fisco. Notare bene, a scanso di equivoci, che il peso della busta paga consente ai dipendenti di essere assicurati in caso di infortunio o malattia e di accumulare i necessari contributi previdenziali per godere un giorno (lontano) la meritata pensione.

Schermata 2016-03-31 alle 10.37.40Nonostante i fini nobili, il peso è davvero eccessivo, spesso insostenibile, e incide notevolmente sui bilanci aziendali. Ecco perché quando lo Stato mette sul davanzale delle sue finestre delle torte appetitose, le imprese si catapultano su di esse fameliche. È successo con i voucher lavoro, è successo anche con gli importanti sgravi contributivi del 2015 per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. In ambedue le situazioni il sospetto (più che legittimo) è che una parte delle aziende abbia un po’ abusato di tali strumenti legali: nel caso dei voucher, questi sarebbero stati utilizzati per camuffare prestazioni in “nero” o per ridurre il costo di dipendenti stabili; nel caso degli sgravi contributivi sarebbero stati effettuati licenziamenti fittizi seguiti da riassunzioni con il nuovo contratto a tutele crescenti.

Dai due esempi si può dedurre che coloro i quali si aspettano dalle imprese comportamenti eticamente virtuosi, rischiano spesso di rimanere delusi, e non potrebbe essere altrimenti! Il nostro ordinamento giuridico ha inquadrato l’impresa come una persona giuridica che ha il dovere di perseguire il profitto, cercando di aumentare i ricavi e di ridurre i costi. Le imprese sono quindi obbligate a rispettare la legge, non a soddisfare le intenzioni del legislatore (che dovrebbe in ogni caso tentare di prevedere gli effetti delle sue scelte).

Il successo dei voucher e la competitività del sistema

Fatte queste premesse, il successo dei voucher non dovrebbe sorprendere. In assenza degli stessi, quelle ore di lavoro contenute nei buoni tornerebbero probabilmente ad essere retribuite in maniera irregolare. Sarebbe meglio o peggio? Peggio, anche dal punto di vista contributivo (12,5% di contributi è meglio dello 0%) e di protezione del soggetto in caso di infortuni.

I voucher  hanno introdotto flessibilità nelle incrostazioni del mercato del lavoro, rappresentando un’oasi di semplicità e praticità all’interno di un oceano burocratico (la semplicità dello strumento è disarmante, come comprare un Gratta e Vinci), comportando inoltre significativi risparmi sui costi del personale. Come testimonia un albergatore intervistato da Report, senza i Voucher probabilmente non riuscirebbe a mantenere la sua struttura aperta tutto l’anno.

Ma i voucher sono altresì utilissimi per dare una chance ai cosiddetti “unskilled workers”. Tra questi rientrano ad esempio i giovani privi di istruzione superiore o universitaria e gli immigrati sprovvisti di qualifiche. Un “unskilled worker” non ha la necessaria esperienza o le dovute qualità che possano giustificare una retribuzione lorda (ad esempio) di circa 2.000 euro mensili.

Ecco perché in assenza di strumenti di flessibilità – come possono essere i voucher – e con l’attuale cuneo fiscale, i soggetti “unskilled” sono condannati a restare fuori dal mercato occupazionale oppure a dover lavorare senza un regolare contratto, un po’ come accade quando si fissa troppo in alto il salario minimo (M. Friedman, “Free to Choose”), finendo ai margini della società.

Ma se l’utilità dei voucher è facilmente intuibile, è ben più arduo pensare a come intervenire per correggere le criticità emerse. Innanzitutto va rilevato che esistono già dei precisi limiti di importo (massimo 7.000 euro annui per singolo lavoratore di cui non più di 2.000 da un unico datore) e di comunicazione alla Direzione Territoriale del Lavoro (che deve essere preventiva alla prestazione , deve indicare il luogo della stessa e lo svolgimento entro i successivi 30 giorni). Si potrebbe quindi intervenire sulle soglie di importo o prevedere degli incentivi fiscali per chi assume i prestatori di lavoro accessorio. Più generalmente, si potrebbe cercare di limitare il fenomeno rendendo lo strumento più complicato e/o meno conveniente per le imprese.

Che il Governo possa complicare lo strumento è la soluzione solitamente più probabile. Ma se per una volta si invertisse il ragionamento e si partisse dal problema che sta a monte piuttosto che dall’innovazione che sta a valle? L’Esecutivo pare intenzionato a voler ridurre il costo del lavoro in maniera strutturale dopo i provvedimenti una tantum. Sarebbe una scelta che in futuro potrebbe pagare (anche se sussiste un problema di finanziamento dell’operazione).

E rappresenterebbe una vera inversione di tendenza rispetto alle abitudini del nostro Paese. Si prendano a mo’ di esempio i casi (molto diversi) Taxi vs Uber o Albergatori vs Airbnb, dove invece di lottare per semplificare la vita ad albergatori e tassisti (riducendo tasse, licenze e burocrazia), si lotta per complicarla notevolmente a Uber e Airbnb.

Una tendenza deleteria che spesso conduce a soluzioni regolatorie meno efficienti e che danneggiano la competitività del sistema.

Twitter @frabruno88