Rebus pensione: la flessibilità in uscita può aiutare l’occupazione giovanile?

scritto da il 22 Aprile 2016

Nel mondo anglosassone si parla di “lump of labour fallacy” per indicare l’errore comune di chi pensa che la forza lavoro in un’economia sia una componente fissa, invariabile. In estrema sintesi, un nuovo lavoratore entrerebbe nel mercato solo a seguito dell’uscita di un altro.

È diffusa l’opinione, soprattutto tra politici e sindacati, secondo la quale l’età in cui si va in pensione abbia effetti diretti sull’occupazione giovanile: più alta è l’età pensionabile, maggiore sarà il tasso di disoccupazione giovanile.

Tale opinione è molto popolare nell’attuale dibattito italiano e porta a “spingere” per forme di flessibilità in uscita che possano anticipare l’uscita dal mercato del lavoro di soggetti con una certa anzianità contributiva.

Tralasciando per il momento le considerazioni su quale sia la “giusta” età pensionabile che rispetti i lavoratori, le aziende (in termini di produttività) e le casse dello Stato, appare opportuna qualche riflessione su quali possano essere i reali effetti sulla disoccupazione giovanile delle paventate politiche di flessibilità in uscita, dando un’occhiata ad alcuni dati empirici.

Da dove nasce the lump of labour fallacy e dove conduce

Nasce probabilmente da micro-contesti delle nostre vite quotidiane, che ci portano a credere che il numero di posti di lavoro disponibile sia fisso. Immaginate di essere in un’azienda dove si sente parlare di headcount, di blocco delle assunzioni per un determinato anno. Naturalmente il lavoratore è indotto a pensare che se nessun dipendente uscirà da quell’azienda (per licenziamento, pensionamento etc.) non ci sarà alcuna assunzione. E questi esempi vengono proiettati sull’economia nel suo complesso, con un mercato del lavoro osservato in una prospettiva statica: non cresce, al massimo può diminuire.

Questi comprensibili ragionamenti collidono con i risultati delle ricerche sul tema. E guai se non fosse così. L’esempio di scuola più comune riguarda la crescita dell’occupazione femminile, un obiettivo comunemente auspicato. Dovremmo pensare che l’unico modo per aumentare il tasso di occupazione delle donne sia la contemporanea e proporzionale uscita dal mercato degli uomini?

Tra il 1960 e il 2007 il tasso di occupazione femminile negli Stati Uniti è cresciuto notevolmente, passando dal 34 al 46% [1], ma ciò non è certamente dipeso da un crollo dell’occupazione maschile.

L’esempio appena citato si può traslare anche al presunto dualismo tra giovani e anziani. Uno studio (si veda nota n. 1), non recentissimo, di Gruber, Milligan e Wise ha analizzato una serie di dati di alcuni Paesi OCSE (tra cui Italia, Francia, Germania, UK, Belgio USA) per studiare gli effetti di politiche di prepensionamento sulla disoccupazione giovanile. Il paper è lungo, ma contiene una serie di informazioni rilevanti che “smontano” l’idea di una boxed economy. Nelle conclusioni gli autori affermano  di non aver trovato nessun riscontro che confermi l’assunto secondo cui l’aumento dell’occupazione nella fascia di persone over 50 riduca le opportunità per le fasce più giovani o provochi un aumento della disoccupazione giovanile. In aggiunta i dati dimostrerebbero una positiva correlazione tra gli incentivi fiscali per l’uscita dal mercato del lavoro e la disoccupazione giovanile.

Non convince l’argomento contrario secondo cui la crescita simultanea di lavoratori giovani e anziani dipenderebbe dal positivo ciclo economico, perché ciò non trova consistenti riscontri nei dati dai Paesi Ocse colpiti dalla crisi globale del 2008. La risposta che probabilmente spiega la positiva correlazione tra lavoratori giovani e anziani è molto simile alla correlazione uomini-donne. Una persona che lavora guadagna dei soldi che può spendere per acquistare beni e servizi, beni e servizi frutto del lavoro di uomini, donne, anziani e giovani, senza distinzione. In estrema sintesi, se c’è crescita economica l’occupazione può migliorare in tutte le fasce, altrimenti son guai. [2]

Brevi riflessioni conclusive

Le economie crescono grazie alla specializzazione del lavoro, al progresso scientifico e tecnologico, che rendono alcuni lavori obsoleti e creano opportunità diverse per i giovani, i quali hanno nuove abilità e capacità rispetto ai più anziani. [3] Si può e si deve lavorare sull’integrazione scuola-lavoro, preparando i giovani a un ingresso in un mercato sempre più competitivo, dove è richiesto l’apporto di un valore aggiunto, non l’occupazione di una sedia. Far credere ai giovani che siano bloccati dagli anziani è controproducente, fonte di attriti intergenerazionali che si dovrebbero evitare.

Indubbiamente la crisi ha colpito duramente gli under 40 e quando il presidente dell’INPS evidenzia le paure per il futuro della generazione degli anni ‘80/90 occorre prestare la massima attenzione, senza nascondere nulla. Pacifico anche che la produttività dei lavoratori over 60 è argomento delicato che, in alcuni casi, può rappresentare un costo importante per le aziende che quindi vedono di buon occhio queste operazioni di uscita anticipata.

A prescindere dalle ovvie e legittime domande su queste policies (quanto costano? chi ne sosterrà il peso?), sarebbe quindi meglio evitare di pensare che un consistente aiuto all’occupazione giovanile possa derivare automaticamente dalla flessibilità in uscita. Perché se fosse questa la principale ricetta italiana per combattere la disoccupazione dei più giovani, la diapositiva in mente sarebbe inevitabilmente quella di un raschiamento del fondo di un barile.

Proprio come scrivevano lo stesso Tito Boeri e Vincenzo Galasso nel 2013, le politiche – spesso sperimentate in Europa durante gli anni ’70 e ’80 – consistenti nel mandare in pensione anticipatamente lavoratori anziani per tentare di far posto ai giovani, non hanno prodotto gli effetti sperati, rivelandosi “disastrose“. Di contro hanno provocato un aumento del costo del lavoro, dovuto alla crescita della contribuzione obbligatoria, aggravando la disoccupazione stessa.

Che non ci si illuda troppo quindi con le “staffette generazionali”, perché la lotta alla disoccupazione giovanile, secondo gli autori, in primo luogo deve passare necessariamente da «una riduzione del dualismo sul mercato del lavoro, della pressione fiscale sul lavoro e per un aumento della produttività».

Twitter @frabruno88

NOTE

[1] Jonathan Gruber, Kevin Milligan, David A. Wise, “SOCIAL SECURITY PROGRAMS AND RETIREMENT AROUND THE WORLD: THE RELATIONSHIP TO YOUTH EMPLOYMENT, INTRODUCTION AND SUMMARY”, disponibile al link http://www.nber.org/papers/w14647.pdf
[2] The Economist, “Keep on trucking – Why the old should not make way for the young”,  disponibile al link http://www.economist.com/node/21547263
[3] René Böheim, “The effect of early retirement schemes on youth employment”, disponibile al link http://wol.iza.org/articles/effect-of-early-retirement-schemes-on-youth-employment.pdf