Due cose, forse tre, su come il Sud può ripartire davvero

scritto da il 08 Maggio 2016

Pubblichiamo un post di Gianfranco Viesti, professore ordinario di Economia Applicata nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari

In un recente post su questo blog, Francesco Bruno offre alcune riflessioni su Mezzogiorno e politiche di sviluppo. Volentieri qualche commento, per quanto sommario per evidenti ragioni di spazio.

Benvenuto il post: si discute molto poco. Male, perché il tema è cruciale per gli italiani. Assai difficile che l’economia italiana possa ripartire lasciando indietro un terzo del paese. Anzi, è dallo sviluppo del Sud che può venire un traino significativo all’economia del Centro-Nord; assai meno, viceversa. Stime Banca d’Italia, confermate da molti (inclusi i ricercatori di Intesa San Paolo), mostrano che una crescita dell’economia al Sud induce un rilevante effetto di sviluppo al CentroNord (nell’ordine di +0,4 per ogni punto di PIL, sotto forma di importazioni interregionali) e non viceversa (perché se il CentroNord cresce importa assai poco dal Sud).

Ma come far crescere il PIL del Sud? Assai difficile, specie in questo periodo. Essenziale capire perché.

Questa recessione non solo è (è stata?) più lunga e profonda delle precedenti, ma anche caratterizzata da effetti territoriali molto asimmetrici: assai più grave al Sud. Per motivi economici: perché è caduta assai più la domanda interna di quella internazionale (e l’economia del Sud è meno aperta); per motivi – importanti e finora assai poco considerati – di politica economica: anche le politiche di austerità sono state fortemente asimmetriche (qualche indicazione qui) aggravando la situazione, e allargando notevolmente i divari. Dalla crisi dell’euro il Sud va ancor peggio dell’asfittica media nazionale. E temo che non sia una fase congiunturale, ma potrebbe essere un “new normal”.

È a mio avviso azzardato aspettarsi che siano forze spontanee di mercato a far magicamente ripartire il Sud, senza una politica economica che aiuti a superare le molte trappole che ostacolano la ripresa. In pillole, essa deve mirare ad una forte ripresa degli investimenti pubblici e privati. Si dice nel post: i divari Nord-Sud di produttività non sono compensati da scarti nel costo del lavoro; è su quest’ultimo che forse occorre agire. Dubito. La contrattazione di secondo livello già produce uno scarto simile a quello della produttività; ma soprattutto: nell’Europa integrata e nel mondo globalizzato nessun prodotto del Sud può mai competere grazie a costi di produzione (in primis del lavoro) comparativamente molto bassi. Perché non siamo più (da tempo!) un’economia chiusa in cui il “comparativamente” vale rispetto al CentroNord; siamo un’economia aperta, in cui il “comparativamente” vale rispetto a Romania, Albania, Cina. Bene tenere i costi sotto controllo, ma se non cresce la produttività non si esce da questa trappola.

A questo devono volgersi investimenti pubblici e privati.

I primi, decisivi. Certo, ci mancherebbe: non sono accettabili bassa qualità degli interventi, lentezza e soprattutto infiltrazioni della criminalità. Bel tema per la politica. Di più: non servono solo le “infrastrutture” senza politiche che garantiscano servizi per cittadini e imprese che quelle infrastrutture valorizzino. Ma non sono motivi per non cercare di farli, in quantità e qualità sufficiente. Cosa che da tempo non è affatto (la spesa pubblica in conto capitale pro capite è da tempo al Sud più bassa della media nazionale, a sua volta assai più bassa di quella europea). Il confronto con la Germania Est è imbarazzante. Solo aumentando le esternalità positive (anche assai semplici: un treno che vada da Bari a Napoli) e diminuendo quelle negative la produttività può crescere, anche in tempi non biblici.

I secondi, altrettanto. Figli degli spiriti animali, certo; ma di questi tempi – ecco un’altra trappola – assai poco vivaci viste le prospettive a medio e a lungo. Quindi figli anche di una moderna politica industriale. Sì, come in paesi tutt’altro che comunisti (Stati Uniti, Regno Unito, Germania): una politica che induca flussi assai maggiori di investimenti nell’innovazione, nel reclutamento di personale qualificato, nell’internazionalizzazione e nella crescita dimensionale che tutto ciò tiene insieme e consente (ne ho scritto tempo fa in un libriccino a quattro mani con Dario di Vico).

Concludendo. Sono conscio di aver sollevato un’elevata densità di questioni per rigo. Mi scuso della sommarietà delle affermazioni: occorrerebbe argomentare con più calma e profondità su ognuna di esse, sapendo che (specie di questi tempi!) nessuno ha facili ricette nel taschino.

Ma le questioni sollevate forse fanno capire un punto di fondo. La stragrande maggioranza delle classi dirigenti economiche e politiche del paese, da anni, ha semplicemente rimosso il tema Mezzogiorno. Nel caso migliore, incrocia le dita e spera. O fa molta comunicazione (come con i recenti “Patti”) e poca sostanza. Perché non ci crede più, perché non paga elettoralmente, perché porta, forse, solo risultati in tempi lunghi; perché convinto che essendo il Mezzogiorno abitato da meridionali, per motivi etnoantropologici non abbia chance. Ma anche per un altro fondamentale motivo: perché per discuterne seriamente vanno messi a fuoco alcuni nodi della politica, della società, dell’economia e della politica economica dell’Italia contemporanea.

Piaccia o no, il Sud non è altro dall’Italia, ma la sua parte più debole; se non cresce è certo anche per sue specifiche dinamiche; ma anche (moltissimo a mio avviso), per le stesse questioni che si intrecciano con il “declino” dell’intero paese.

Twitter @profgviesti