Sud e Stato, quello che non ci ricordiamo

scritto da il 04 Giugno 2016

La politica di sviluppo del Mezzogiorno è argomento che appassiona da oltre un secolo chi segue la politica e l’economia. Da sempre è oggetto di accesi dibattiti e di reciproci scambi di accuse fra esponenti di una o dell’altra scuola di pensiero. In special modo oggi, che il divario di sviluppo fra il Nord ed il Sud d’Italia è sempre più evidente: il primo, nonostante la crisi, mostra dati da paese del nord Europa mentre il Sud assomiglia per tanti versi alla Grecia, oramai paradigma di nazione sconfitta sul piano economico.

Per meglio capire l’oggi e districarci fra le varie opinioni è necessario conoscere le condizioni di partenza e la storia dei vari interventi fatti dalla politica per modificare la situazione di sottosviluppo del Meridione. Senza voler partire da secoli fa mi limiterò alle vicende del dopoguerra, dando però per assodato l’handicap della posizione geografica: privo di materie prime e lontano dal centro economico europeo, che dall’Età Moderna si era trasferito dal Mediterraneo ai paesi del nord Europa, il Sud ha accusato uno svantaggio che nessun territorio in condizioni simili è riuscito completamente a colmare nei secoli, si pensi alla Penisola iberica o ai Balcani.

All’uscita dalla guerra, nel 1946, il Sud Italia era un territorio che basava quasi interamente la sua economia sull’agricoltura, la quale era fra l’altro caratterizzata da una bassa produttività, a causa della struttura latifondista che era stata soltanto scalfita dalle politiche dell’Italia unitaria, comprese quelle fasciste (nonostante i roboanti proclami e battaglie del grano per l’indipendenza alimentare dell’Italia).

La riforma agraria voluta dalla DC di De Gasperi contribuì ad abbattere il sistema latifondiario, portando all’esproprio di 700mila ettari, di cui oltre 450mila nel Mezzogiorno e nelle Isole, ma proprio in questi territori, per l’elevato numero di popolazione agricola e la relativa bassa qualità produttiva delle terre, portò alla creazione di aziende agricole di ridotte dimensioni, incapaci di fornire sufficiente reddito al nucleo familiare, da una parte, e con estensioni insufficienti agli sviluppi legati alla moderna automazione agricola dall’altro.

Il risultato fu sì un miglioramento delle condizioni delle popolazioni meridionali, ma un miglioramento senza grandi prospettive, se non l’aver creato in questo modo una fittizia piena occupazione e aver dato qualche possibilità di autoconsumo in più a strati sociali precedentemente nella miseria più nera.

Il secondo canale di intervento pubblico del dopoguerra fu quello infrastrutturale, tramite la Cassa del Mezzogiorno. Fondata nel 1950 la sua finalità era appunto cercare di colmare il gap infrastrutturale fra il Sud e le altre zone d’Italia come elemento chiave per il suo progresso economico. A questo si aggiunsero politiche volte a rendere più convenienti gli investimenti nel Mezzogiorno tramite incentivi fiscali e contributi diretti ed indiretti, fino a prevedere l’obbligo per le imprese a partecipazione pubblica di investire almeno il 40% al Sud. Questi interventi furono prima volti alla totalità del territorio e poi, a causa dei modesti risultati, a poli di sviluppo dove si pensò potessero avere un effetto di volano di crescita più efficiente.

Queste politiche comunque non furono completamente fallimentari: se nel 1950 il reddito pro-capite del Mezzogiorno era pari al 40% di quello del Nord Ovest (il famoso Triangolo Industriale), nel 1967 esso era salito al 48%, la forza lavoro impiegata nell’industria era salita di 1,4 milioni mentre quella nell’agricoltura era decresciuta di 950 mila unità: un saldo positivo sia qualitativo che quantitativo.

Il fallimento dei tentativi di mettere in piedi una compiuta ed obiettiva politica economica, prima col Piano di programmazione economica del 1965-69 (il cosiddetto Piano Giolitti), poi con quello del 1971-75, che naufragò a causa della crisi energetica dei primi anni ‘70, non limitarono l’intervento pubblico nel Mezzogiorno ma ne definirono la sua “balcanizzazione” in un nugolo di interventi scoordinati fra loro e spesso messi in insana concorrenza, che più che altro servivano a mitigare le difficoltà politiche dei vari esecutivi attraverso la gestione, via via più clientelare, del denaro pubblico destinato alla modernizzazione del Sud.

Durissime al riguardo le parole del compianto economista Marcello De Cecco, un keynesiano, sui limiti, anzi sui danni, che tali politiche portarono al sistema economico italiano:

“Nell’esperienza italiana degli anni tra il 1965 e il 1975, a questo circolo vizioso si aggiunse anche il policentrismo che la coalizione di governo esportò verso il sistema industriale pubblico e quello finanziario. Ognuna delle fazioni di cui si componeva il governo volle una sua provincia industriale e finanziaria. E le iniziative di investimento scelte da ciascuna di queste spesso si indirizzarono verso gli stessi settori, procedendo a creare, col pubblico denaro, nuova capacità produttiva in impianti concorrenti gli uni con gli altri, oltreché con impianti esteri. (…)

La repressione finanziaria restava e veniva persino aggravata. Non serviva più a economizzare risorse, ma a sprecarle, allo stesso tempo risultando incapace di controllare i prezzi dei prodotti delle nuove iniziative industriali, e quindi mettendo i nuovi impianti nella impossibilità strutturale di presentare conti in pareggio o in profitto. Nei nuovi impianti, posti in concorrenza tra loro oltre che con l’estero, i costi avrebbero strutturalmente superato i ricavi per un tempo indefinito.

Gran parte delle nuove iniziative industriali pubbliche, finanziate coi fondi degli Istituti di credito speciale che sorsero nel Mezzogiorno in quegli anni, presentava tali caratteristiche. Fece eccezione la siderurgia di Taranto, che aveva dimensioni sufficienti per assicurarle la vitalità economica, anche internazionale. Ma, in quel caso, problemi gravissimi sorsero per la impossibilità di chiudere impianti più vecchi, che Taranto rendeva obsoleti e anti-economici, specie dopo che la crisi del petrolio fece precipitare la vecchia siderurgia europea in una crisi senza sbocchi e stimolò l’introduzione di quote produttive nazionali imposte dalla Cee. Taranto fu così costretta a produrre a mezza forza, e divenne a sua volta anti-economica.”

L’apoteosi di tale sistema di spartizione dei soldi pubblici, e delle cariche degli enti incaricati a gestirli, fu raggiunta durante l’ultimo pentapartito in cui il famoso Manuale Cencelli la faceva da padrone, in barba ad ogni considerazione non solo economica ma pure di buon senso e non più giustificabile né con le tensioni sociali, oramai in fase di assopimento, né con la difficile situazione internazionale. Un periodo che il senatore Francesco Forte, allora responsabile economico del Psi craxiano e membro di varie commissioni e governi, citato in un post di Rosamaria Bitetti su questo blog, dovrebbe perlomeno conoscere bene, nonostante la sua recente conversione liberista.

Ma, polemiche a parte, ci preme notare come l’ultima fase, proprio per la sua degenerazione, ha saputo mettere fine ad un periodo di studi ed applicazioni economiche che, pure fra tanti difetti, era riuscito a dare un segnale di inversione all’economia del Mezzogiorno e di fatto ha messo la parola fine pure su qualsiasi tentativo di serio progetto di politica industriale in Italia, la cui assenza è una delle cause, se non la principale, del declino a cui assistiamo oggi.

Twitter @AleGuerani

 

Bibliografia

Giuseppe Di Nardi “ I provvedimenti per il Mezzogiorno” in “Economia e Storia”, 1960

Manlio Rossi-Doria “La riforma sei anni dopo” in “Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno”, 1959

Pasquale Saraceno “La politica di Sviluppo di un’area sottosviluppata nell’esperienza italiana” in “Nord e Sud”, maggio 1968

Marcello De Cecco “Splendore e crisi del sistema Beneduce” in “Storia del capitalismo italiano: dal dopoguerra a oggi”, 1997