Il paradosso: Brexit per una UE leggera

scritto da il 21 Giugno 2016

A breve avremo il risultato del referendum sulla Brexit. È ampio lo spettro di posizioni su chi subirà i danni maggiori in caso di vittoria del “Leave”, e non univoche sono pure le aspettative sul futuro della UE: chi dice che ne seguirà il crollo, e chi dice che sarà una spinta verso un grande Stato europeo. Anche sulle stime di perdita di PIL britannico si può leggere di tutto: da niente fino alla perdita di un sesto di PIL (in 3 o 15 anni, a seconda della stima).

La verità è che in caso di Brexit tutto dipenderà dai tempi di negoziazione delle nuove condizioni commerciali e dalla stance punitiva dei politici UE (specialmente sul passaporto finanziario europeo). Poche cose sono scontate. La crescita di un paese (o di un’area) dipende dall’intensità degli scambi commerciali e finanziari. Una qualsiasi riduzione al commercio danneggia entrambe le parti, ma l’economia inglese è grosso modo un settimo di quella UE, perciò il danno sarà maggiore per la Gran Bretagna e più distribuito per la UE (per quanto sbilanciato su Irlanda, Olanda e Belgio).

Ma non sarà questo a decidere il futuro della UE né a far fallire la Gran Bretagna, non siamo in grado di prevedere le future riorganizzazioni degli scambi commerciali e finanziari mondiali. La vera questione è tutta politica e riguarda il riconoscimento del significato dell’Unione Europea e da cosa questa tragga il suo valore.

Per capire questo, dobbiamo pensare alla UE come a un club. Un club, per acquisire valore, ha bisogno anzitutto di attirare e trattenere quanti più membri possibile. A questo fine la UE si è dotata di un progetto e di un sistema di regole… e poi ha permesso una serie di eccezioni sia alla partecipazione a tutti gli aspetti del progetto (moneta unica, coinvolgimento nella gestione dei confini, contribuzioni) che al rispetto delle regole (veridicità contabile, gestione della finanza pubblica). Per non parlare dell’erraticità delle politiche di salvataggio.

Tutto questo è stato un grosso compromesso per salvaguardare ciò che costituiva il valore essenziale del club: attrarre e trattenere membri. Ma se questo fine viene perseguito acriticamente e “a ogni costo”, si apre il capitolo dell’azzardo morale: una volta che si è entrati nel club – lecitamente o meno – è possibile ricattare il club stesso non rispettando esattamente le regole e drenando quante più risorse possibile, consci che il club non può permettersi né il fallimento del singolo membro né la sua uscita volontaria o meno. Ritengo che esempi concreti di questo opportunismo non manchino neanche per lo spettatore più distratto.

Viene un momento in cui il valore di un singolo membro non supera il suo costo politico (oltre che economico). A quel punto la priorità non è più acquisire nuovi membri o tenere tutti gli attuali, ma qualificare meglio la natura del club. Il valore del club, il fondamento della sua esistenza, diviene quindi la collaborazione dei membri e il perseguimento di progetti realmente fattibili. Lo spazio per l’opportunismo si riduce perché assume maggior valore l’osservanza di regole finalizzate alla realizzazione di specifici progetti. I fini del club, singoli aspetti del progetto complessivo, possono venir ridimensionati pur di venir realizzati e portati come prova del valore del club. Senza tutto questo – fini irraggiungibili, opportunismo non sanzionato – il club, semplicemente, fallisce.

Ritengo che la UE sia un club che deve cercare valore nella sua qualificazione e non più nella sua numerosità. Il referendum britannico non è causa di questa evoluzione, ma è una manifestazione della maturità dei tempi.

Il successo del “Leave” sarebbe la dimostrazione che il valore della partecipazione – e del club come mero insieme di partecipazioni – è ormai troppo basso. Sarebbe la prova che il progetto europeo può veramente fallire. L’euro-burocrazia (la prima ad aver interesse diretto alla sopravvivenza della UE) sarà costretta a lavorare su serietà e realismo degli obiettivi senza permettere più gli storici esempi di opportunismo (Unione più “leggera”, votata non all’accentramento amministrativo bensì all’uniformità e rispetto delle regole per una ampia concorrenza sia commerciale che fiscale). I singoli membri dovranno pretendere collaborazione e correttezza da parte di tutti. Le tentazioni opportuniste dovranno cessare, perché il fallimento della UE significa la perdita di quell’importante paracadute finanziario che ha permesso finora di evitare destini e derive sudamericane.

Il funzionamento di questo meccanismo però dipende da alcuni fattori. È necessaria una certa maturità politica sia da parte delle classi dirigenti che da parte degli elettori nel riconoscimento della situazione attuale e prospettica. È necessario anche che le condizioni di uscita della Gran Bretagna siano fattivamente “punitive” (sul modello turco o canadese: accesso limitato al mercato e decadenza del passaporto finanziario) in modo da sancire una prima importante differenza tra l’essere dentro o fuori dal club. È infine necessario che il lasso di tempo tra l’esito “Leave” e la conclusione delle negoziazioni sia breve perché il cambiamento di status venga avvertito con forza (il che spiega perché ci si aspetta una tardiva ratifica e tutta una serie di ritardi da parte del Governo inglese nel processo di negoziazione e distacco dalla UE).

La vittoria del “Remain” equivale a confermare la situazione corrente, magari pagando ulteriori eccezioni per la Gran Bretagna e quindi confermando le possibilità di comportamenti opportunistici (da occultare in futuro in una qualche forma di Unione Fiscale). Ma lo stesso risultato si otterrebbe con un “Leave” risolto in accordi sul modello norvegese o svizzero, in cui è possibile ottenere accessi al mercato sostanzialmente simili agli attuali pur pagando una qualche contribuzione (purché minore rispetto all’attuale perché i promotori non perdano la faccia). Sarebbe una vittoria per la Euro-burocrazia, almeno fino ad un nuovo referendum.

L’irrequietezza del paese più “autonomo” (e già fuori dall’Area Euro) tradisce le debolezze del progetto del Superstato, l’Unione dei Trasferimenti dove i meccanismi concorrenziali commerciali e fiscali vengono smantellati. Alla minaccia di altri “Leave” sovrani è più conveniente rispondere con il riconoscimento delle autonomie salvando solo gli aspetti fondamentali dell’Unione quali il mercato comune e forme di mutuo supporto fortemente (e stavolta, veramente) condizionati.

Per il futuro dell’Italia, una Brexit penalizzante sarebbe quindi l’esito più auspicabile. Questa è la camicia di forza che può costringere l’Italia ad un vero processo di ammodernamento e riforma in tutti i settori e riduzione degli spazi di opportunismo interni (già l’Unione Monetaria era stata pensata con questo fine, ma magari ne discuterò in un altro momento). Politici e elettori italiani avrebbero l’evidenza sia del valore dell’Unione che del limite al drenaggio di risorse altrui. Non credo che sia un caso che le forze politiche che auspicano un grande Stato europeo e uniformità fiscale si esprimano contro la Brexit, magari sostenendo al contempo che sarebbe proprio la Brexit a rafforzare questo progetto (l’incoerenza dovrebbe essere evidente). Mentre favorevoli restano le forze politiche più populiste giusto perché in quanto tali fanno leva sulla pancia e non sulla ragione, oltre che sul mito della sovranità monetaria.

Il mio non è un auspicio di tranquillità, ma è quanto ritengo più opportuno per il nostro futuro.

Twitter @LBaggiani