Perché se il Pil non riparte sarà molto più difficile combattere disuguaglianze e povertà

scritto da il 12 Novembre 2016

La grande recessione avviatasi nel 2008 ha colpito tutti i principali Paesi industrializzati, con effetti dirompenti negli Stati Uniti e negli stati membri dell’Unione Europea. La ripresa, non ancora completata, prosegue a velocità diverse da Paese a Paese. Per analizzare lo stato di salute di una nazione però, non ci si può limitare solo ai dati economici. È diffusa la sensazione che i Paesi avanzati vivano in un’epoca in cui le disuguaglianze e la povertà stiano aumentando e tale convinzione diventa corrente di pensiero capace di determinare il risultato di elezioni importanti, come anche dimostra la vittoria di Donald Trump. Spesso si tratta di percezioni sbagliate, ma che non bisognerebbe mai sottovalutare.

Come vanno le cose in Europa e negli USA?

Una recente pubblicazione del think tank Bruegel offre alcuni spunti di riflessione. La comparazione è basata su chi riesca meglio a garantire una cosiddetta crescita inclusiva, attenta allo stato di benessere di ogni segmento della popolazione ed alla mobilità sociale tra le diverse classi, non solo al mero tasso di povertà (sotto i 2,50 dollari al giorno, in Europa pressoché inesistente).

Un elemento molto importante per analizzare la disuguaglianza di una società è rappresentato dalla mobilità intergenerazionale del reddito: c’è scarsa mobilità quando i figli dei poveri restano poveri e i figli dei ricchi restano ricchi. Su questo piano ottengono ottimi risultati i Paesi scandinavi, mentre preoccupano  i dati di Regno Unito e Italia ad esempio. E tutto ciò può avere riflessi elettorali molto significativi. Lo studio citato ha condotto un’analisi su 173 regioni del Regno Unito, in merito al referendum sull’uscita dall’UE, confermando una maggiore propensione per il leave nelle regioni a più alto tasso di disuguaglianza e povertà. Sembrerebbe che lo stesso possa essere accaduto anche nel voto statunitense.

Nella comparazione UE-USA invece, si osserva che negli States la disuguaglianza si è ridotta negli anni ’60 ed è rimasta stabile nel decennio successivo, per poi crescere da allora. Ma occorre anche distinguere tra la disuguaglianza prodotta dal mercato e quella “netta”, cioè la disuguaglianza risultante dopo l’applicazione di politiche redistributive (tassazione progressiva e trasferimenti diretti). Proprio nelle politiche redistributive l’UE sembra fare molto di più rispetto agli USA, finendo per ammortizzare gli effetti prodotti dalla disuguaglianza di mercato.

Se questo può sembrare un aspetto positivo, l’effetto collaterale è una società europea più egualitaria ma meno meritocratica. Difatti il sistema americano garantisce una migliore remunerazione per i lavoratori altamente qualificati (skill premium) a svantaggio dei low skilled. Di contro, nella UE – ad eccezione della Germania – è avvenuto l’opposto, a svantaggio di chi ha investito nell’istruzione e dei “cervelli in fuga”. Ai livelli degli USA c’è la Cina, a proposito della quale viene riportato che nel 1997 aveva 20 milioni di occupati con istruzione universitaria, diventati ben 112 milioni nel 2014 (per chi ancora crede che la Cina significhi solo imitazione dei nostri prodotti da manifattura leggera).

Di certo, negli USA anche la rivoluzione tecnologica sta contribuendo alla crescita del malumore di chi resta indietro (sempre i low skilled), con ricadute sociali molto più accentuate rispetto al Vecchio Continente. In quest’ultimo, tutto sommato, la situazione non è estremamente negativa come si è soliti pensare, ma vi sono ancora marcate differenze di performance tra i vari membri dell’Unione.

La situazione Italiana

L’Italia presenta un grosso problema di mobilità intergenerazionale bloccata, come già sottolineava su queste pagine Beniamino Piccone. Una grave piaga causata da un modello di scuola malato e da un mercato ancora troppo corporativista con una struttura spesso medievale. Molto interessante sul punto anche uno studio della Banca d’Italia sulla mobilità intergenerazionale di lunghissimo periodo (1427 – 2011) nella città di Firenze, che ci aiuta a capire come alcuni problemi attuali abbiano radici secolari.

Risultati negativi anche per quanto concerne lo skill premium ai lavoratori maggiormente qualificati. Male, malissimo, per quanto riguarda la disoccupazione giovanile e il fenomeno dei NEET, che rappresentano il 29% della fascia di età 15-24 (peggior risultato all’interno dell’UE).

In virtù delle politiche fiscali e redistributive, facciamo invece meglio rispetto a USA, Cina e Brasile a livello di disuguaglianza del reddito, ma peggio di Germania e Francia.

Fatte queste premesse e guardando al caso italiano – che mostra un quadro preoccupante su alcune voci – sarebbe di conseguenza più opportuno insistere su maggiori politiche redistributive per combattere le disuguaglianze o puntare principalmente sulla crescita del PIL?

Secondo la ricostruzione dello storico economico Emanuele Felice [1], tra la fine del 1800 e gli anni ’80 del 1900 l’Italia ha rappresentato un esempio virtuoso di lotta alla povertà ed alla disuguaglianza. Anche in una fase di grande crescita economica – l’inizio del miracolo negli anni ’50 – che di solito coincide con una crescita delle disuguaglianze, abbiamo assistito ad una riduzione costante delle stesse e del tasso di povertà. La diminuzione ha raggiunto il suo massimo negli anni ’70, facendo seguito ad alcune politiche sociali introdotte dai governi di centro-sinistra negli anni ’60, con il tasso di povertà crollato dal 20 al 3,6% e con l’indice di Gini ridottosi di dieci punti. Poi, negli anni ’80, l’Italia ha iniziato a rallentare e, a partire dagli anni ’90, povertà e disuguaglianza sono tornate a preoccupare. Si tratta del medesimo trend del PIL, che ha cominciato a stentare ed a causare recessioni (a volte pesanti) negli anni negativi.

Da ciò si evince che durante i decenni in cui il PIL cresceva, la torta si ingrossava e tutti ne beneficiavano, soprattutto i ceti meno abbienti, con contestuale riduzione delle disuguaglianze. Quando la crescita ha iniziato a latitare, la tendenza positiva si è invertita. Di conseguenza, se il PIL non riparte, possiamo dividere la torta nelle maniere più ingegnose, ma sarà sempre più piccola e contesa.

Non c’è lo spazio per approfondire le cause che hanno ostacolato la nostra crescita, anche perché non vi sono risposte secche e definitive. Tuttavia, pur essendo ognuno libero di interpretare i dati secondo le proprie convinzioni, riporto solo (sempre dal testo di Felice citato) che l’Italia aveva nel ‘74 una pressione fiscale del 25%, minore rispetto alla media OCSE (28,6%). Nel ‘93 la stessa è arrivata al 42%, distante dalla media OCSE (34%), un gap mai più colmato. Contemporaneamente, nel ’74 la nostra spesa pubblica era pari al 35% del PIL, inferiore ad una media del 38% dell’allora comunità europea, per poi passare al 50% nel 1985 ed addirittura al 55% nel 1993. Analogo trend per il debito pubblico, pari al 50% del PIL nel ’74, esploso poi negli anni ’80 per arrivare a superare il valore del PIL tra il ’92 e il ’93.

Negli ultimi duecento anni siamo stati eccezionali per lunghi periodi nel creare una miracolosa crescita economica che ci ha portato ai vertici dei Paesi industrializzati, traguardo impensabile nel 1800. A un certo punto, dagli anni ’60 del secolo scorso, abbiamo provato a garantire anche una crescita ancor più inclusiva, ma siamo stati meno bravi, finendo per imbrigliarci in un assistenzialismo parassitario che ha prodotto una moltiplicazione delle burocrazie e che ci ha condotti in un vicolo cieco fatto di tasse e debito dal quale è difficile venir fuori.

Twitter @frabruno88

[1] Felice E., “Ascesa e declino. Storia economica d’Italia”, Il Mulino 2015.