Sei comuni errori dei giornalisti sul bitcoin

scritto da il 08 Aprile 2017
Bitcoin.
Un tema affascinante per molti giornalisti, la maggioranza dei quali, purtroppo, sembra però non conoscerne gli aspetti fondamentali per poterlo trattare senza scrivere castronerie o peggio fake news.
Questo post esplora sei comuni errori che i lettori incontrano nei post ed articoli che trattano l’argomento.
1) “Bitcoin no, ma blockchain si.”
La cosa interessante sarebbe solo la underlying technology. In realtà, senza un incentivo economico non esiste consenso open/permissionless sulla blockchain. E senza necessità di creare uno scenario di consensus open/permissionless non serve a nulla blockchain. É un po’ come quando gli incumbent telco volevano “online senza Internet”. Internet é Bitcoin, online é blockchain. Non esiste blockchain senza bitcoin. Mentre, paradossalmente, é possibile far viaggiare bitcoin senza blockchain (per esempio negli Exchange).
2) “Bitcoin, l’azienda”.
Abituati a innovazioni tecnologiche basate su prodotti e compagnie (Google, Apple, Facebook), spesso passa il messaggio che Bitcoin sia qualcosa di simile. Non lo é. Bitcoin é un open standard di livello infrastrutturale. È un set di protocolli. Molti articolisti che non approfondiscono parlano di bitcoin come di una compagnia (vecchi articoli esilaranti del tipo “arrestato il CEO di bitcoin”). Invece bitcoin é come internet. O come l’email.
3) Bitcoin usato da “criminali”.
Anche ignorando il fatto che ogni tecnologia può essere usata per il crimine (le automobili sono usate per le rapine in banca, ma non é una buona ragione per vietare e tornare alle carrozze), e anche facendo ricadere nella categoria “criminale” qualsiasi attività che un determinato regime politico proibisce (quindi non solo terrorismo internazionale, ma anche donne afghane che vogliono lavorare, famiglie venezuelane che vogliono proteggere risparmi di una vita dall’inflazione folle, immigrati e minorenni che vogliono poter ricevere e muovere soldi ma non hanno accesso a un conto, persone che vogliono donare a Wikileaks per avere più trasparenza su attività illegali dei governi, ecc.), comunque i numeri non tornano. L’economia illegale mondiale é stimata a circa il 22% del PIL globale. L’intera economia bitcoin é oggi attorno a 10 miliardi di dollari. Fare i conti é facile: non c’é spazio nella capitalizzazione bitcoin per quelle cifre. Se bitcoin fosse usato oggi per serie operazioni di riciclaggio di denaro (che oggi avviene tramite il sistema bancario), il suo valore dovrebbe essere di ordini di grandezza ben maggiore.
4) Bitcoin controllabile dai “cinesi”.
Bitcoin é in realtà prodotto di equilibrio tra molte forze, nessuna delle quali può imporre nulla alle altre. Una di queste forze é rappresentata dai miner, il cui ruolo é molto limitato, per quanto fondamentale: stabilire collegialmente la cronologia relativa della transazione. Se un player controllasse la maggioranza del potere di calcolo del mining, il peggio che potrebbe fare sarebbe spendere due volte i propri soldi, e non quelli altrui. Oppure rallentare transazioni altrui, ed anche questi attacchi sarebbe molto facili da scoprire, quindi one-off. La prova del fatto che bitcoin non é controllato dai miner (tanto meno dai miner cinesi, o dalla Cina) e che anche quando una maggioranza di questi vuole cambiare una regola di bitcoin (vedi hard fork) non lo può fare senza consenso plebiscitario degli altri soggetti coinvolti in bitcoin (nodi, business on top, utenti).
5) Blocks, light nodes, full nodes, hashers, mining pools, exchanges: non una singola misconception, ma un gran minestrone.
Un alto numero di commentatori (specie sulla stampa generalista) tende a mischiare a caso termini che hanno un significato preciso, creando una enorme confusione. I blocchi sono le “pagine” del registro contabile distribuito blockchain. I nodi sono le macchine che fanno girare il software bitcoin, validando le firme digitali delle transazioni e le “prove di lavoro dei blocchi”, certificando indipendentemente che tutto segua il protocollo. Tra i nodi distinguiamo quelli “leggeri”, come una app wallet Bitcoin su un cellulare, che fanno una validazione solo parziale, oppure nodi “completi” che verificano tutto. I miners sono nodi particolari che non si limitano a validare le “pagine” esistenti, ma ne creano di nuove, mettendo in ordine cronologico le transazioni e “seppellendole” sotto una potenza di calcolo, per renderle immodificabili. I miners possono essere dei singoli che mettono a disposizione potenza di calcolo individualmente, o delle grosse “pool” dove vari miners si uniscono condividendo costi e ricavi. Gli exchanges sono piattaforme proprietarie su cui scambiare i singoli bitcoin. Intercambiare questi termini crea molte confusioni.
6) “Il dibattito su block size”
Il tema “dimensione dei blocchi” viene raccontato come “due fazioni in guerra civile”, come se la spaccatura fosse simmetrica. Non lo é. Sarebbe come dire che c’é un vero dibattito scientifico con due poli distinti sul tema vaccini e autismo, o sul tema delle scie chimiche, o dell’efficacia dell’omeopatia o dell’oroscopo. Non c’é. Gli sviluppatori attivi su bitcoin in tempi recenti sono tutti concordi sulla strategia: allargare lievemente i blocchi in modo compatibile con il protocollo attuale (soft fork) e aprire la strada a milioni transazioni al secondo “off-chain”, grazie a una modifica chiamata SegWit. Evitando in ogni caso modifiche contenziose al protocollo, o cambiamenti non compatibili con il protocollo attuale (hard fork). Sostanzialmente quasi tutto il business (compresi molti miner) segue  questa strategia. Dall’altra parte ci sono alcuni importanti miner cinesi, che non vogliono la modifica “soft” proposta dagli esperti (anche perché, come recenti rivelazioni hanno evidenziato, segwit renderebbe inefficacie una loro modifica segreta ai macchinari, fatta per avere vantaggi competitivi), supportati da un minoritario movimento “popolare” di utenti più un paio (letteralmente) di sviluppatori sconosciuti e amatoriali (che rilasciano codice chiuso e non firmato, oltre che pieno di bug).
A questo post ha contribuito Giacomo Zucco, ceo di BHB Network