Migranti, la pia illusione dell’“aiutiamoli a casa loro”

scritto da il 09 Luglio 2017

In pieno dibattito italiano ed europeo sugli sbarchi nella nostra penisola di immigrati provenienti dalle coste nordafricane, ci sarebbero molte questioni da analizzare, di varia natura e con diverso grado di complessità. Ma ciò che non manca mai – dai nostri politici a Bill Gates – è il mantra dell’“aiutiamoli a casa loro”, ossia “spendiamo i soldi dell’accoglienza per migliorare le condizioni economiche e sociali nei Paesi di origine dei migranti”. Un mondo migliore per tutti, ma molto ideale.

Ammontano a 142,6 miliardi di dollari gli aiuti per lo sviluppo conferiti dai Paesi ricchi (dati OCSE) nel 2016, in aumento di quasi il 9% rispetto all’anno precedente. L’Italia ha contribuito alla voce con 4,85 miliardi, lontani dall’obiettivo dello 0,70% del PIL (la media dei Paesi considerati è pari allo 0,32% del PIL). Ma malgrado l’aumento, facciamo registrare un uso delle risorse abbastanza contraddittorio, dato che il 34% delle risorse è stato utilizzato per l’accoglienza dei rifugiati in Italia (1,66 miliardi di euro).

Addentriamoci ancora. Con i dati 2015, si vede che la grande maggioranza delle risorse impiegate dall’Italia (comprensive di quelle utilizzate per l’accoglienza) ha una destinazione non specificata e include i costi amministrativi di gestione (30 milioni). L’Afghanistan è stato il maggior ricevente, seguito da Iraq, Pakistan ed Etiopia.  Ma secondo la logica dell’”aiutiamoli a casa loro per diminuire l’immigrazione”, a chi dovrebbero andare tali aiuti? Queste sono le nazionalità dichiarate dai migranti arrivati in Italia nel 2017 (fonte).

sbarchi

Se confrontiamo questi dati con gli aiuti conferiti, osserviamo che, nel 2015, la Nigeria non risulta aver ricevuto alcun aiuto dall’Italia (sempre dati OCSE), idem per il Bangladesh e la Guinea. Un milione per la Costa d’Avorio, un po’ di milioni in più per Etiopia e Senegal. Ma potremmo aiutare la Libia, da dove salpano le imbarcazioni. Due milioni nel 2015, a cui – per la cronaca – vanno aggiunti i 26 milioni da istituzioni dell’Unione europea (destinati ad aumentare).

Prima riflessione: gli importi sono ridicoli e, come si evince, le risorse non sembrano dirigersi verso quei Paesi dai quali proviene il maggior numero di migranti. L’obiezione a questa riflessione è abbastanza semplice: “Basterebbe spendere di più verso quei Paesi e in Libia”. Bene, ma come? È solo una questione di soldi?

La Nigeria, seppur con un presidente eletto, è da anni alle prese con la violenza di Boko Haram nel Nord del Paese e con una corruzione dilagante. La Guinea ha avuto un colpo di stato militare nel 2008, è stata molto colpita dal virus Ebola, e si trova a dover gestire anche l’accoglienza dei rifugiati dalla Sierra Leone e dalla Liberia. Poi c’è l’Eritrea, Stato non democratico, con un presidente in carica dal 1993 e nel quale, secondo un report dell’Onu dello scorso anno, vengono commessi crimini contro l’umanità. E poi c’è la Libia, il famoso paese-chiave, con due parlamenti e tre governi (non dovrebbe essere necessario aggiungere altro).

Seconda riflessione: pensare che in questi contesti socio-istituzionali basti indirizzare i nostri generosi aiuti allo sviluppo (maggiori rispetto a quelli attuali) affinché si riesca ad invertire la rotta e convincere gli abitanti del luogo a non emigrare, è davvero straordinario. Sembra che la storia dell’Italia unita, le emigrazioni dal Sud, le distorsioni causate dalla presenza di istituzioni estrattive non ci abbiano veramente insegnato nulla.

Ma se gli aiuti fossero al peggio solo inefficaci, non sarebbe poi la fine del mondo, considerata l’importanza di molti progetti realizzati e il sollievo degli aiuti umanitari ben indirizzati. Il problema è che spesso non percepiamo i potenziali effetti negativi degli aiuti stessi sui Paesi riceventi. A scriverlo a chiare lettere, tra gli altri, è stato Angus Deaton, premio Nobel per l’economia, nel suo “La grande fuga”: «Gli aiuti allo sviluppo e i progetti da essi finanziati hanno indubbiamente prodotto numerosi buoni risultati; molte strade, dighe e ambulatori non esisterebbero se questi fondi non fossero stati donati e utilizzati. Tuttavia le forze negative sono anch’esse costantemente all’opera; gli aiuti all’estero compromettono il funzionamento delle istituzioni, contaminano la politica locale e minano la democrazia persino nei contesti più promettenti. Se è vero che la povertà e il sottosviluppo sono conseguenze principalmente dell’inadeguatezza delle istituzioni, indebolendo queste istituzioni o bloccandone lo sviluppo l’afflusso massiccio di fondi agisce nel modo esattamente opposto a quello desiderabile. (…) A preoccupare, in merito agli aiuti all’estero, non è l’effetto che essi possono produrre sui poveri del mondo – che in effetti raramente riescono a raggiungere -, bensì l’impatto che esercitano sui governi dei paesi poveri. L’accusa rivolta agli aiuti all’estero di peggiorare, in alcuni casi, le condizioni di vita dei poveri sostiene che questi aiuti sollevano i governi dalla necessità di rispondere alle esigenze dei cittadini in miseria, che quindi patiscono un danno».[1]

Si dovrebbe avere l’onestà intellettuale di dire che si sta cercando una soluzione simile all’accordo UE-Turchia per bloccare i rifugiati siriani, che di certo non è stato un accordo pensato per il bene dei siriani stessi. Ma, come scrive sempre Deaton, si fa fatica ad ammetterlo, perché «la retorica umanitaria serve ai nostri politici per presentarsi come modelli di virtù, e a noi per assolvere ai nostri obblighi morali nei confronti dei poveri del mondo. Ma dobbiamo essere certi di non causare danni. Se così fosse, allora agiremmo soltanto per “noi”, non per “loro”».

Twitter @frabruno88

[1] Deaton A., “La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza”, il Mulino 2015 (ed. originale Princeton University Press 2013), cap. VII, pag. 341.