L’incredibile default del Venezuela sul debito estero

scritto da il 06 Agosto 2017

Alla fine del 2007, prima dell’arrivo della grande recessione, il Venezuela aveva raggiunto la terza posizione tra i Paesi dell’America latina per prodotto interno lordo pro-capite. La disoccupazione era all’8% e il Cile, il Paese più ricco, aveva un Pil pro-capite superiore soltanto del 6%. Si stima che nel 2022, secondo i dati più recenti del Fondo Monetario Internazionale, il Venezuela avrà da allora perduto circa il 27% del Pil pro-capite e sarà tra i Paesi più poveri del continente sudamericano. La disoccupazione avrà superato il 35%. Il Cile, ancora primo Paese, avrà un Pil pro-capite due volte e mezzo quello venezuelano.

Varie tesi sono state avanzate per dare una giustificazione a questa tragedia economica e sociale, tesi che a volte tendono a sconfinare in valutazioni superficiali o populistiche. A mio avviso sarebbe opportuno partire da una considerazione generale: il petrolio, greggio o suoi derivati, rappresenta oltre il 90% dell’export venezuelano.

L’andamento del prezzo del petrolio ha storicamente fatto la fortuna (e la sfortuna) dell’economia venezuelana. Basti ricordare che i tumulti di fine anni ottanta, così simili a quelli di oggi, furono figli del calo del petrolio avvenuto durante quel decennio, del conseguente deterioramento dei conti esteri e delle riforme, cosiddette di “Washington Consensus”, varate dal Governo Perez in accordo con il Fondo Monetario Internazionale.

Così come avvenuto negli anni ottanta, anche adesso, il calo del prezzo del petrolio, riducendo il controvalore dell’export, ha avuto effetti deteriori sulle variabili economiche interne. Le esportazioni erano arrivate prossime ai 100 miliardi di dollari nel 2012. Lo scorso anno sono state inferiori ai 28 miliardi. I controlli valutari in essere dal 2003 hanno quasi automaticamente compresso la quantità di beni importabili, rendendoli estremamente scarsi sul mercato interno e facendone incrementare i prezzi. Il Governo, evitando di intervenire con correzioni di bilancio sui redditi dei cittadini e sulla domanda interna, ha lasciato spazio all’inflazione che si è ormai avvitata in una spirale di iperinflazione. Attualmente dovrebbe aver superato il 1000%. L’iperinflazione ha così pressoché azzerato il valore del debito pubblico collocato all’interno del Paese, e allo stesso modo pressoché azzerato il valore del risparmio finanziario dei venezuelani. Un default che non si chiama default, ma che probabilmente porterà ad una completa dollarizzazione dell’economia.

Tutto è quindi partito, come spesso avvenuto in altri casi di iperinflazione, da uno squilibrio dei conti esteri. Le importazioni, ridotte in conseguenza dei controlli valutari, hanno permesso di mantenere un moderato attivo commerciale. Questo surplus però è stato più che compensato dal deficit dei servizi e dei redditi primari. Il saldo di partite correnti, nonostante il calo dei consumi e dei redditi reali conseguenti all’iperinflazione, non è previsto che ritorni in attivo almeno per i prossimi 5 anni. Se si considera che a metà 2016 le riserve valutarie erano pari a 12 miliardi di dollari, il deficit di partite correnti previsto per quest’anno dovrebbe quasi azzerarle, e rendere estremamente probabile il default sul debito estero oppure un intervento del Fondo Monetario Internazionale (o il ricorso a nuovi prestiti cinesi come più volte già avvenuto in passato). Nonostante i ripetuti proclami del presidente Maduro di voler onorare i prestiti internazionali, il caos sociale e politico nel quale si sta avvitando il Paese potrebbe essere la perfetta giustificazione per sospendere i pagamenti dei debiti esteri.

Il default sul debito estero del Venezuela potrebbe però essere un caso del tutto singolare, che raramente si verifica. È infatti abbastanza raro che un Paese creditore verso l’estero, ampiamente creditore come in questo caso, non onori le proprie passività internazionali. In figura 1 ho schematicamente rappresentato la posizione patrimoniale sull’estero del Venezuela, dalla quale si rileva come la posizione netta, creditoria, sia intorno ai 127 miliardi di dollari, circa il 50% del Pil.

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Figura 1. Posizione Patrimoniale sull’Estero del Venezuela. Dati in miliardi di Dollari. Fonte dati: IMF Macroeconomic and Financial Data

Si nota come le attività estere siano ampiamente superiori alle passività. I titoli del debito pubblico in circolazione all’estero sono inferiori ai 10 miliardi di dollari, ed i prestiti esteri ricevuti (che comprendono quasi interamente la voce “altri investimenti”) sono circa 67 miliardi, di cui 11 ricevuti dal Governo e 22 dal settore finanziario.

Se il Governo venezuelano avesse operato in tutti questi anni per costituire, al pari di molti altri Paesi petroliferi, un fondo sovrano in riserve o altre attività internazionali, avrebbe disponibilità per far ampiamente fronte agli impegni con l’estero. Avrebbe inoltre ricevuto maggiori flussi di redditi primari in grado di smussare (per quanto possibile) le fluttuazioni del conto merci
Viceversa si è consentito che venissero accumulati dal settore privato non finanziario ampie disponibilità estere (oltre 170 miliardi di dollari) che non possono essere immediatamente utilizzate per onorare i debiti esteri del Governo e del settore finanziario e che forniscono redditi in valuta internazionale ai soli detentori.

Tutto questo però non ha niente a che vedere con il prezzo del petrolio e con le fluttuazioni sulle variabili economiche interne che esso genera. Ha a che vedere con il modo nel quale si ripartiscono le risorse trai vari agenti economici e dipendono pertanto da precise scelte interne alla società ed alla politica del Venezuela. Da questo punto di vista la politica economica populista di Chavez e Maduro si è rivelata molto simile a quella del tanto odiato Perez. Forse maggiormente redistributiva all’inizio, quando il prezzo del petrolio lo permetteva, ma ugualmente a tutela degli interessi delle élite quando il petrolio non lo ha più permesso.

Twitter @francelenzi