Se l’Italia non è un Paese per laureati e l’istruzione non è una priorità

scritto da il 18 Settembre 2017

A pochi giorni dall’uscita del nuovo rapporto annuale dell’OCSE sullo stato dell’istruzione nei Paesi ad alto reddito (qui il focus sull’Italia), si riapre il dibattito sul sistema educativo italiano. Il report, infatti, insiste sui temi già evidenziati dal monitoraggio dell’Unione Europea sul raggiungimento degli obiettivi fissati dall’UE per il 2020 (qui l’analisi che Tortuga fece in merito su lavoce).

In particolare, l’istituzione di Parigi sottolinea come i dati 2014 indichino che l’Italia “presenta una proporzione relativamente bassa di adulti in possesso di un titolo d’istruzione terziario, e prospettive relativamente scarse sul mercato del lavoro per i giovani adulti con un livello d’istruzione terziario”. Non un Paese per laureati, insomma.

Nell’analisi, l’OCSE segnala poi come la spesa per istruzione (in rapporto al PIL) sia stata eccezionalmente bassa, e che i contributi pubblici sono in sensibile calo, soprattutto dal 2010, con una quota crescente di spesa proveniente da famiglie e privati.

Il “fardello del debito”

Quando l’attenzione si concentra sulla spesa pubblica, il pensiero volge subito al “fardello del debito”. Il debito pubblico è la zavorra che pesa sulla crescita e sulle opportunità di investimento, e che impedisce all’Italia di raggiungere i livelli di spesa che vantano altri Stati. “Se potessimo spendere meno del nostro PIL nel servizio del debito” – si dice spesso (v. qui, ad esempio) – “avremmo più soldi per scuole e ospedali”. Ma è davvero così? O l’istruzione semplicemente non è una priorità politica per il nostro Paese?

Per rispondere, abbiamo osservato quanta parte della spesa pubblica i Paesi europei dedicano all’istruzione, al netto del pagamento degli interessi. Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale infatti, in Italia nel 2015 quasi il 10% della spesa pubblica – che vale circa il 50% del PIL – è stato dedicato al pagamento degli interessi sul debito. Solo Spagna e Portogallo hanno pagato di più.

La Figura 1 mostra tuttavia che, dal 1995 a oggi, la quota di spesa pubblica dedicata agli interessi è scesa notevolmente, principalmente grazie all’entrata nell’area euro. Parallelamente, la quota di spesa dedicata all’istruzione – sul totale della spesa pubblica, sottratti gli interessi – è rimasta pressoché costante fino al 2007, con un calo marcato dal 2007 al 2015. Ovvero, le risorse “liberate” da un debito pubblico meno gravoso sono state distribuite tra le varie uscite dello Stato, e spese anche nel sistema dell’istruzione. In altri termini: la fetta per l’istruzione è rimasta uguale, in proporzione, ma la torta nel frattempo è cresciuta, in termini relativi.

Figura 1Evoluzione delle quote di spesa pubblica dedicate a istruzione e interessi sul debito in Italia

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Fonti: Eurostat (2017); International Monetary Fund (2017)

Una questione di priorità

Quanto mostrato sopra, però, continua a non essere sufficiente. Ciò che indicano i dati, infatti, è che non basta sostenere i livelli di spesa (comunque bassi) mostrati finora, ma è necessario un cambio di passo che veda emergere il sistema dell’istruzione tra le priorità politiche, economiche e sociali del Paese.

La stessa “rivoluzionariaBuona Scuola – che ha segnato un’inversione di rotta per la spesa – è ben lontana dall’adempiere allo scopo, andando a reintegrare solo in piccola parte gli investimenti mancati.

La Figura 2 mostra che nessuno Stato in Europa, a parte la Grecia, ha speso meno dell’Italia per l’istruzione. Tolti gli interessi, l’Italia spende meno del 9% dei soldi pubblici per scuola, università e formazione, quasi 2 punti in meno della media europea, più di 4 punti in meno dell’area Euro, e meno di Paesi con un sistema in gran parte privato (v. UK).

Il Bel Paese fa oggi peggio del 2002, quando la quota era superiore all’11%. Ancora sotto la media ma, ad esempio, davanti alla Germania. Come dire: malgrado tutto l’Italia, sull’istruzione, va in direzione ostinata e orgogliosamente contraria.

Figura 2 – Quota di spesa al netto degli interessi dedicata all’istruzione nei Paesi europei

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Fonti: Eurostat (2017); International Monetary Fund (2017)

Chi è stato penalizzato di più?

Nella Tabella sottostante, vediamo come questo ritardo pesi in maniera diversa sui livelli d’istruzione, e come il divario con gli altri Paesi sia in generale aumento dal 2007 al 2015.

La spesa per istruzione pre-primaria e primaria è scesa sotto la media UE, dal 2007 – ed è ancora  molto lontana da quella dell’area euro – ma è a livelli non bassi, superiori a quelli registrati in Francia e Germania. Discorso simile vale per l’istruzione secondaria, tra le fasce più penalizzate nel confronto con l’Europa negli anni 2007-2015. Sotto la media UE, sopra quella dell’area euro, davanti a Germania[1] e Spagna.

Le voci più penalizzate, tuttavia, sono l’istruzione terziaria e le altre voci di spesa legate all’istruzione[2], dove l’Italia è uno dei fanalini di coda del continente. L’Italia spende per l’università pubblica poco più solo del Regno Unito – che ha un sistema prevalentemente privato –, circa la metà di Germania, Spagna e media europea, meno di un terzo dei Paesi con la moneta unica. Stesso scenario se si guarda alle spese residuali.

Tabella 1 – Quota di spesa pubblica al netto degli interessi per livello d’istruzione

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Fonti: Eurostat (2017); International Monetary Fund (2017)

Per concludere: se la domanda fosse “diminuire il peso del debito beneficia l’istruzione?”, la risposta sarebbe che sì, un “fardello” minore porta risorse anche all’istruzione. Tuttavia, un maggior sollievo dal servizio del debito non è stato in realtà determinante, fino ad oggi, per dare spazio ad un cambiamento delle priorità politiche, economiche e sociali del nostro Paese. Lontana dal cambio di marcia necessario, negli ultimi decenni un minor peso del debito pubblico ha in realtà visto parallelamente scendere l’istruzione tra le priorità di spesa dello Stato.

Twitter @Tortugaecon

[1] In Germania, si noti, il sistema duale che collega istituti tecnici e professionali è grandemente finanziato dalle imprese, che, ad esempio, retribuiscono gli studenti durante i tirocini.

[2] Vedi nota sotto.

[3] Ovvero: Istruzione non definita secondo un livello; Servizi sussidiari all’istruzione; Ricerca e sviluppo sull’istruzione; Altre spese non classificate.