Il surreale dibattito sulle pensioni dice che se i giovani restano sdraiati perdono

scritto da il 03 Dicembre 2017

Gli autori del post sono Guido Ascari, professore di Economia, Università di Oxford e di Pavia, e A.B. Seico, senior economist in una SGR –

Scriviamo perché siamo preoccupati. Preoccupati dal livello del dibattito pubblico in generale, e sulle pensioni in particolare. Siamo due economisti: uno da poco rientrato dall’estero e l’altro in contatto giornaliero con i mercati, e facciamo fatica a comprendere come sia possibile che il dibattito politico attuale, e cioè ormai in campagna elettorale, presenti spesso in riferimento alle pensioni una serie di falsità e di omissioni che andrebbero denunciate fortemente. È invece fondamentale che la riforma delle pensioni non diventi l’oggetto del contendere di questa campagna elettorale. Bisogna chiarire che molte affermazioni che si sentono non sono vere, molte promesse non sono mantenibili, sono anzi pericolose, dato che la riforma delle pensioni (al netto di drammatici errori come gli esodati) è una delle ancore su cui si fonda la credibilità della sostenibilità del debito pubblico italiano.

Mediante l’uso di fonti attendibili e facilmente reperibili (documenti di programmazione del governo, del loro coordinatore, la Commissione Europea, e di un autorevole osservatore “esterno” cioè il Fondo Monetario Internazionale), in quanto macroeconomisti, ci è sembrato naturale evidenziare alcuni punti fissi, che dovrebbero essere ripetuti ogni giorno da organi di stampa responsabili e, quindi, acquisiti da chiunque come punto di partenza di ogni discussione seria.

Primo punto: la spesa pensionistica italiana è elevata (poco meno di un terzo della spesa pubblica totale), ma ha un’evoluzione futura attesa rassicurante. L’evoluzione futura attesa è la nostra lettera di credito sui mercati: anche il solo discutere di misure che porterebbero a cambiare queste prospettive decrescenti della spesa pensionistica per un paese con un debito così elevato potrebbe essere suicida.

schermata-2017-12-02-alle-00-13-03 schermata-2017-12-02-alle-00-13-18Nell’aggiornamento al DEF che il governo ha approvato a fine settembre 2017 compare questo grafico. Nel testo (pp. 54-58) si dice che la repentina salita iniziale è dovuta alla recessione e la successiva discesa è dovuta all’innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento e all’applicazione, pro rata, del sistema di calcolo contributivo. La “gobba” della spesa è dovuta puramente a fattori demografici, i.e. la bassa natalità e l’invecchiamento della popolazione, che prevalgono sul primo effetto. La ripresa del trend discendente è dovuta invece alla progressiva generalizzazione del calcolo contributivo. La spesa corrente (Ageing report 2015 della Commissione Europea per il 2013) è pari al 15.7% del Pil (in linea col grafico qui sopra) contro una media di Eurozona del 12.3%. Nel 2040 la spesa italiana dovrebbe rimanere invariata (15.8%) mentre la media europea salirebbe al 13.0%. Nel 2060 la spesa Italiana scenderebbe al 13.8% mentre quella Europea tornerebbe al 12. 3%.

Secondo punto: le prospettive di spesa decrescenti sono merito della riforma Fornero. Per dirlo con le parole usate dal Fondo Monetario Internazionale: “Con la riforma Fornero, il sistema pensionistico italiano:

  • utilizza un tasso implicito basato sui contributi versati e automaticamente aggiustato per i tassi di mortalità;
  • introduce aumenti periodici nei requisiti di eleggibilità in linea con gli sviluppi nella longevità.”

L’adozione di meccanismi automatici è giustamente considerato dalla Commissione Europea un elemento positivo, come mostra la tabella qui sotto tratta dall’Ageing report 2015. In altre parole, la riforma Fornero è riconosciuta dai mercati e dalle varie organizzazioni internazionali come un architrave fondamentale per il controllo della finanza pubblica.

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Terzo punto: le proiezioni della spesa pensionistica di cui sopra “si basano su assunzioni ottimistiche” di crescita e di andamento occupazionale/demografico (FMI, 2017). Non è tutto così roseo. Il FMI (Country Report No. 17/237 July 2017) innanzitutto sottolinea che il livello della spesa pensionistica è molto alto perché oggettivamente il sistema rimane ancora molto generoso e presenta alcune peculiarità proprie, che potrebbero essere riviste da subito. Infatti, esistono ancora trattamenti basati sul sistema retributivo e misto (pro rata) che generano replacement rates (il rapporto tra il trattamento pensionistico e i redditi di lavoro percepiti in attività) non attuarialmente corretti ed impongono un carico di aggiustamento sproporzionato sui futuri pensionati. Inoltre, alcuni interventi dovrebbero rientrare più in generale in altri capitoli di spesa/assistenza. Quello più ovvio è quello per le pensioni di reversibilità, per le quali l’Italia offre assegni più alti e li concede più spesso (la spesa è pari al 2.75% del PIL contro una media che è intorno all’1.5%).

Il FMI sottolinea soprattutto come le ipotesi sottostanti la dinamica della spesa nel lungo termine utilizzate dal MEF, in termini di tasso di crescita dell’economia e dinamica dell’occupazione e del tasso di partecipazione, siano “ottimistiche”. Specificamente: 1) il tasso di crescita reale del PIL si attesterebbe all’1.2% medio annuo, e la produttività del lavoro all’1.75%. Questi sono dati molto diversi da quelli registrati dall’Italia nell’ultimo ventennio: come evidenziato dall’ISTAT nel periodo 1995-2016 il PIL è cresciuto dello 0.65% medio annuo e la produttività del lavoro dello 0.3%; 2), l’occupazione dovrebbe aumentare di 10 punti percentuali (e la disoccupazione scendere dall’11.2% attuale al 5.5% nel 2060: un tasso obiettivamente record, dato che il tasso di disoccupazione medio in Italia è stato circa del 9.5% (FMI). Questo peraltro grazie a un ipotetico flusso regolare e non banale di immigrati (154k all’anno) che compenserebbe la diminuzione della popolazione (e inoltre il tasso di fecondità dovrebbe risalire dall’attuale 1.39 a 1.59).

L’Italia dovrebbe cioè registrare un tasso d’immigrazione più alto di ogni altro pese europeo per i prossimi decenni. In realtà, si sa che l’Italia è spesso vista come un paese di passaggio dagli immigrati. In assenza di questo flusso di immigrazione, ovviamente le previsioni sarebbero ben diverse, con buona pace di alcune forze politiche nostrane anti-immigrati e che stanno attaccando la riforma Fornero.

Il seguente grafico dal report del FMI riporta le proiezioni demografiche sottostanti le previsioni di spesa pensionistica del governo italiano e le proiezioni demografiche delle Nazioni Unite, considerate universalmente le più affidabili. Senza bisogno di commenti, il grafico rende l’idea del perché le assunzioni del MEF si possano considerare ottimistiche.

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Punto quarto: il mercato è attento alla sostenibilità del debito. Per questo abbiamo bisogno di crescita del PIL: i dati a breve sembrano incoraggianti, quelli a lungo un po’ meno. Sul mercato finanziario la percezione del tema “pensioni” è all’interno della cornice della sostenibilità della posizione debitoria. Per quanto il QE della ECB comprima il premio per il rischio, il differenziale di rendimento tra i BTP a 10 anni e i corrispettivi titoli tedeschi, che è l’indicazione più ovvia di questa rischiosità, è pari oggi a 145 punti base; il corrispondente differenziale per la Spagna è di 115 punti base.

La Spagna ha un deficit più alto di quello dell’Italia ma cresce molto di più, ha un debito più basso e quindi non genera dubbi di sostenibilità. Per l’Italia il problema è che la bassa crescita non consente di riassorbire con facilità lo stock del debito. I recenti segnali di ritorno alla crescita sono stati accolti positivamente (anche da S&P con il recente upgrade), ma è presto per dire se siano congiunturali o strutturali. Con una popolazione che, verosimilmente, decresce e invecchia però la crescita del PIL potrebbe rivelarsi una chimera, anche a fronte di favorevoli dinamiche della produttività del lavoro.

Ci sono due aspetti che hanno consentito, e per un po’ consentiranno ancora, di essere comunque ottimisti: il primo è il basso livello dei tassi di interesse, grazie all’azione della BCE (che prima o poi finirà) e il secondo è il fatto che viene comunque percepita (nonostante la bassa crescita) una certa solidità dell’Italia dal punto di vista statico, grazie all’elevato stock di ricchezza, e dal punto di vista dinamico, proprio grazie all’aver già introdotto dei meccanismi automatici di controllo della spesa pensionistica. Si ricordi però che tutto è collegato: se non c’è crescita, il rapporto debito su PIL non cala, ma anche lo scenario della spesa pensionistica è molto diverso.

Conclusione: in questo scenario è semplicemente folle da parte delle forze politiche pensare, e tantomeno discutere, di rendere più generoso il nostro sistema pensionistico.
La falsità più evidente è che vi sia tra le pieghe dell’attuale sistema la possibilità di scegliere di pagare trattamenti più generosi. Questa scelta non c’è e non ci può essere. Un dibattito informato dei fatti non può non prendere le mosse da queste basi: non si possono rimuovere gli automatismi perché essi costituiscono uno dei pregi essenziali del sistema attuale. Questo non significa che non si possano gestire eccezioni (i lavori usuranti) e introdurre più flessibilità (l’APE), ma non bisogna intaccare la generalità delle regole.

Il sentiero è piuttosto stretto. Di certo non si può rimuovere una delle ancore di sicurezza per i conti pubblici italiani. Se a fronte di riforme strutturali pro-crescita è stata concessa un po’ di flessibilità al nostro paese, qualora venisse rimosso questo ancoraggio, la risposta delle autorità europee sarebbe certamente (e giustamente) di segno opposto. “We would also like to underline the importance of avoiding backtracking on the important fiscal structural reforms, notably as regards pensions, which underpin the long term sustainability of Italy’s debt.” (Letter to Italy, 22/11/2017 EU Commission).

La gestione del “buon padre di famiglia” implica due cose: da un lato che si impegnino risorse magari anche non immediatamente presenti ma, almeno, ragionevolmente sicure (e non sembra questo sia del tutto il caso in riferimento alle proiezioni di spesa previdenziale) e dall’altro che vi sia equilibrio tra quello che si spende per le diverse generazioni.

E questo per certo sappiamo già che non è così, figuriamoci se è accettabile un’idea per la quale si inibiscono gli aggiustamenti automatici o addirittura si innalzano i trattamenti attuali: questo avverrebbe di certo a scapito dei trattamenti futuri (anche per via indiretta causata dall’aumento del premio per il rischio pagato sul servizio del debito). Niente di equo per le generazioni future, già penalizzate dall’andare ad affrontare un mondo molto differente e con una prospettiva futura molto meno nitida in termini di incrementi di reddito e di continuità delle carriere lavorative. Non i pensionati, ma i giovani dovrebbero scendere in piazza. Dovrebbero attivarsi perché il dibattito vada inquadrato con obiettività, ed andare a votare; non imitare il loro coetanei britannici che hanno disertato urne ed impegno politico per poi ritrovarsi con la sorpresa Brexit.

È cruciale per il futuro di questo paese che ci sia un dibattito politicamente maturo, informato sui fatti. I cittadini vanno informati ripetutamente, quasi bombardati, sui fatti, sui numeri, per capire come gli altri paesi (specialmente i nostri partner europei) e i mercati guardano all’Italia. Per capire perché sia sempre più facile incontrare all’estero un economista professionista che dica: “non vedo nessuno scenario possibile in cui l’Italia non faccia prima o poi default sul debito pubblico”.

I media hanno un ruolo fondamentale nell’incanalare il dibattito politico su binari corretti, soprattutto in campagna elettorale. I giovani devono armarsi per la guerra, sapendo che stanno per essere numericamente superati da agguerriti vecchi molto ben organizzati, avvezzi a battersi per difendere i propri privilegi sotto la guida del Brenno Alzheimer di turno. I giovani devono vincere la guerra. Se rimangono sdraiati la perdono.