Ecco i soldi di “Resto al Sud”, ma il problema è (ancora) essere davvero imprenditori

scritto da il 04 Gennaio 2018

Dal prossimo 15 gennaio i giovani tra i 18 e i 35 anni residenti (o in procinto di trasferirsi) in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia potranno presentare domanda – attraverso la piattaforma web di Invitalia – per ottenere un finanziamento da utilizzare per un’attività di produzione di beni e servizi. Si tratta di Resto al Sud, misura introdotta dal Decreto Mezzogiorno per cercare di incentivare l’imprenditoria giovanile nel meridione. Un finanziamento pari a 50 mila euro (in caso di singolo richiedente) o fino a 200 mila euro (in caso di più soggetti istanti), di cui il 35% a fondo perduto e il restante 65% tramite un finanziamento a tasso zero rimborsabile in 8 anni. La misura ha una dotazione finanziaria pari a 1.250 milioni di euro. La speranza del ministro De Vincenti è quella di creare nelle regioni meridionali centomila giovani imprenditori in 3 anni.

schermata-2018-01-04-alle-13-00-59Lecita speranza, ma proviamo ad osservare i risultati raggiunti da un “parente” di Resto al Sud, il “Sostegno all’autoimpiego e alla autoimprenditorialità”, una delle misure attivabili attraverso il programma Garanzia Giovani (“Autoimprenditorialità” nel prosieguo). Le due misure sono parenti, ma con alcune differenze sostanziali. Resto al Sud riguarda una platea più ampia da un punto di anagrafico (18-35 anni anziché 18-29) e soggettivo (non occorre necessariamente essere un Neet) ad esempio, ma ha una limitazione territoriale confinata nel Mezzogiorno. Entrambe le misure però cercano di supportare le iniziative imprenditoriali giovanili provando a fornire quello che spesso manca: il capitale. A differenza di Resto al Sud però, l’Autoimprenditorialità non prevede ad esempio finanziamenti a fondo perduto, ma solo la possibilità di ottenere prestiti – fino a 50 mila euro – senza la necessità di garanzie e senza interessi da rimborsare. Ricevere 17.500 euro su 50.000 a fondo perduto non è poco, ma guardare ai risultati parziali dell’Autoimprenditorialità può comunque avere una valenza per fare qualche riflessione su Resto al Sud.

Ci aiuta l’ultimo (ma non recentissimo) Rapporto trimestrale sulla Garanzia Giovani, aggiornato al 30 giugno 2017. Nello stesso si legge intanto che solo lo 0,4% dei giovani avviati a una misura di Garanzia Giovani avrebbe scelto l’Autoimprenditorialità. Il Fondo selfemployement ha una dotazione di quasi 113 milioni di euro e, al 30 giugno, sono state presentate 1512 domande (987 quelle esaminate), sono state impegnate risorse per circa 12 milioni e mezzo di euro ed erogate per poco più di 3 milioni. Numeri non esaltanti – per usare un eufemismo – dal settembre 2016 al 30 giugno 2017, vedremo al prossimo report. Preoccupa l’alta percentuale di domande decadute/non ammesse, che sfiora il 62%, per “mancanza dei requisiti o per esito negativo della valutazione di merito”.

Ecco, nonostante tutti i distinguo del caso e l’oggettiva e innegabile maggiore attrattività di Resto al Sud rispetto all’Autoimprenditorialità, appare evidente come non sia facile ottenere “corse agli sportelli” per tal genere di misure, perché – in generale – non è facile essere imprenditori, soprattutto durante l’età che va dai 18 ai 35 anni. Si occupa del tema l’OCSE, nella quarta edizione del “The Missing Entrepreneurs 2017”.

Un capitolo della recente pubblicazione è dedicato all’imprenditoria giovanile. Si mettono in evidenza le numerose barriere che incontrano i giovani per diventare imprenditori. Ad esempio, si sottolinea un problema di mancanza di consapevolezza delle proprie capacità, dato che circa i due terzi dei giovani intervistati nell’area OCSE (fascia 18-30) ritiene di non avere le capacità per essere imprenditore. Solo il 30% degli italiani ha risposto positivamente alla domanda “Do you have the knowledge and skills to start a business?“, con il livello di confidenza praticamente uguale tra giovani e adulti.

 

catturaLa percentuale è invece vicina al 50% tra i giovani europei per ciò che concerne la paura di fallire (39,6% a livello OCSE), con l’Italia in penultima posizione, meglio solo della Grecia (anche qui in maniera pressoché uguale tra giovani e adulti).

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Si tratta dell’indicatore peggiore. La paura di fallire può rappresentare una barriera decisiva, non semplicissima da superare con un contributo a fondo perduto. Pesa evidentemente il problema irrisolto dell’accezione eccessivamente negativa del fallimento imprenditoriale, che diminuisce gli incentivi a rischiare.

Nei country profiles, la pubblicazione dice qualcosa in più sull’Italia. Mostriamo un tasso di auto-impiego migliore rispetto alla media Ue – come abbastanza noto – ma è molto più alta la quota degli “imprenditori per necessità”, coloro i quali iniziano un’attività autonoma per mancanza di altre opportunità lavorative (22,1% vs. il 15,8% dell’UE). Si tratta di un elemento significativo, soprattutto nel Mezzogiorno, caratterizzato in genere da minori chance occupazionali. Se questo da un lato potrebbe favorire il successo numerico delle application al programma Resto al Sud, dall’altro un divario significativo tra Necessity-based entrepreneurship rispetto all’ Opportunity-based entrepreneurship non rappresenta un segnale incoraggiante, sia in termini di qualità delle nuove imprese sia come evidenza di un mercato del lavoro ancora sofferente.

Infine, lo studio rammenta l’importanza del rapporto tra istruzione primaria e secondaria con l’imprenditorialità, che dovrebbe essere favorito e incoraggiato. Ma questa (ovvia) raccomandazione si scontra con resistenze ideologiche molto radicate che, purtroppo, continuano a biasimare ad ogni buona occasione qualsiasi tentativo di avvicinare i ragazzi ai valori dell’impresa, contribuendo ad accentuare l’auto-impiego per necessità non preceduto da una preparazione adeguata.

È un bene che lo Stato voglia incoraggiare economicamente idee imprenditoriali, perché il capitale è sicuramente importante. Ma di certo non appare meno importante o prioritario investire nella cultura e nei valori d’impresa, nella formazione di classi imprenditoriali, nell’eliminazione di ostacoli al “Fare impresa”, soprattutto in aree disagiate o contaminate dalla criminalità organizzata. Sarà importante monitorare i dati, verificando non solo il numero delle domande presentate – accolte o respinte – ma anche il destino dei progetti e delle imprese beneficiarie.

Twitter @frabruno88