Come ti risolvo la crisi d’azienda, spiegato semplice (ma semplice non è)

scritto da il 28 Gennaio 2018

In un post apparso qui su Econopoly ho cercato di ripercorrere due decenni evoluzione nella disciplina che riguarda le crisi d’azienda: abbiamo assistito infatti ad un processo di progressivo ammodernamento che ha fornito a chi si occupa di imprese in difficoltà strumenti di gestione maggiormente adeguati a perseguire, per quanto possibile, la salvaguardia e la continuità del patrimonio aziendale.

Qui cercherò invece di esaminare due aspetti principali, più connessi alla gestione aziendale:

(i) gli indicatori tipici di una crisi

e

(ii) le principali dinamiche, dal punto di vista organizzativo e manageriale, che interessano le aziende quando affrontano periodi di difficoltà.

Cercherò di identificare alcune logiche generali di comportamento e “buone prassi” per consulenti e manager che si trovano ad affrontare queste situazioni; ancora una volta, mi baserò sulla mia esperienza, cercando di fornire alcune chiavi di lettura che spero siano utili a comprendere come spesso sia complicato, per gli osservatori ed anche per gli stakeholder, cogliere tutti gli aspetti della crisi d’azienda. Dovrò per forza fare delle semplificazioni, che spero mi verranno perdonate, essendo questo un contributo basato sull’esperienza, più che su elaborazioni teoriche.

Ho già avuto modo di rubricare – nel post citato – la “crisi d’azienda” come uno dei casi di “finanza straordinaria”; questi sono legati ad eventi appunto straordinari, come le fusioni ed acquisizioni o la quotazione in Borsa; la straordinarietà di queste fattispecie determina la necessità, in seno alla imprese interessate, di gestire le varie situazioni con processi non ordinari; questi spesso si concretizzano con la creazione di “team di progetto” pluridisciplinari, che raccolgano dentro di sé tutte le competenze necessarie per portare a termine le operazioni appunto definite “straordinarie”; tipici i team di progetto in caso di acquisizione di una nuova società o stabilimento, finalizzate ad integrare organizzazione e strumenti, o nel caso di quotazione in Borsa, dove il lavoro in team anche con consulenti esterni è fondamentale.

Il caso di crisi è sicuramente un caso di gestione “fuori dall’ordinario”, o così dovrebbe essere: la crisi d’azienda ovviamente può capitare, ma dovrebbe essere gestita proprio affinché non diventi “ordinaria”: la malattia (un parallelo sul quale torneremo spesso) non si deve cronicizzare, e ne vanno rimosse le ragioni; la prima cosa da fare è quindi l’esatta comprensione del PERCHÉ un’azienda è in crisi: è importante infatti capire le motivazioni che stanno alla base del malanno; è necessario comprendere bene i sintomi e fare una diagnosi corretta per poter individuare la cura.

Perché quindi un’azienda va in crisi? Per rispondere, cercando un’inevitabile semplificazione, dobbiamo dapprima guardare al Conto Economico, il conto dei costi e dei ricavi di un determinato esercizio: una riduzione dei ricavi complessivi, nonché una riduzione dei margini unitari, o eventualmente entrambi questi fenomeni, causano risultati operativi in calo: il calo dell’EBITDA (il Margine Operativo Lordo), o il suo ingresso in territorio negativo, è senza dubbio una condizione tipica dell’azienda che imbocca la strada della crisi.

L’EBITDA (Earning Before Interests, Taxes, Depreciation and Amortization) è infatti un indicatore del margine prima degli ammortamenti e degli oneri finanziari, e quindi il livello di EBITDA identifica il risultato operativo della gestione che prescinde da quanto un’azienda è indebitata e dal suo livello di investimenti fissi; è l’indicatore che esprime quanto un’azienda è redditizia guardando quasi esclusivamente al suo posizionamento commerciale e di marketing ed alla sua efficienza produttiva.

Naturalmente, il peggioramento dell’indicatore di redditività operativa lorda è una sintesi di molte diverse variabili, che ora non abbiamo il tempo di esplorare: l’impresa può avere problemi a carattere puramente commerciale (vendite in calo), può avere una dinamica commerciale ancora positiva, ma prezzi in calo a causa di pressioni competitive; può avere invece problemi di efficienza: riesce a piazzare “bene” i propri prodotti ma a costi troppo elevati; tutto questo (o un mix di questi elementi) porta sempre a tensioni sul livello di EBITDA; il protrarsi di queste tensioni può portare a crisi d’azienda più o meno gravi.

Il secondo sguardo che dobbiamo dare al Bilancio di una società per comprendere se e quanto è “malata” è quello delle Fonti, il “Passivo” dello Stato Patrimoniale: la struttura dei debiti finanziari ed il loro rapporto con il Patrimonio Netto ci dice quanto è indebitata l’azienda in rapporto alle Fonti di capitale di rischio (l’Equity) e ci fornisce notizie sull’ageing di questo debito in relazione agli impieghi di capitale (fisso o circolante).

Un indicatore molto rilevante, fra i molti possibili, di capacità di un’azienda di far fronte ai propri debiti è proprio il rapporto fra Debito Finanziario Netto ed EBITDA; sostanzialmente l’indice approssima nell’EBITDA, da un lato, l’indicatore del flusso di cassa annuo (non è proprio così, ma non è questa la sede per approfondire la questione) e lo raffronta, dall’altro, con il debito finanziario, consentendo di ottenere un indice di “impegno” finanziario futuro, poiché un indice elevato, maggiore di 2/3, indica che per diversi esercizi l’EBITDA dovrà essere impegnato a ripagare i debiti esistenti (e gli interessi) e non sarà quindi libero per investimenti o per remunerare gli azionisti [1].

Abbiamo quindi molto brevemente, ed in maniera senz’altro incompleta, evidenziato i diversi driver che possono dare indicazioni su performance negative: possiamo tranquillamente affermare, con alcune approssimazioni e generalizzazioni che il lettore perdonerà, che EBITDA in calo (o negativi) implicano normalmente flussi di cassa negativi (o in calo) e che una struttura molto indebitata comporta la concreta possibilità di entrare in quella che determina normalmente il conclamarsi dello stato di “malattia”: la crisi finanziaria o di liquidità.

Quest’ultimo elemento, che abbiamo posto alla fine di un’analisi ragionata è però spesso, troppo spesso, il sintomo reale ed evidente del conclamarsi di una crisi aziendale (prima spesso trascurata): mancano i soldi, non si riesce a rispettare le scadenze sui debiti commerciali e i creditori finanziari (normalmente le banche) iniziano ad osservare tensioni sul grado di utilizzo dei fidi concessi e mettere paletti sull’utilizzo degli stessi.

Un primo aspetto che va evidenziato è proprio questo: troppo spesso, a causa di sistemi di controllo e di monitoraggio inadeguati, gli imprenditori ed i manager tendono a sottostimare tutti gli indicatori (economici e patrimoniali) esposti, fino a quando vi è uno stato di crisi conclamato (per esempio) da eventi esterni dovuto alla (conseguente) crisi di liquidità: per esempio un fornitore, magari chiave, cessa di fornire l’azienda; o una banca revoca le linee di credito. Il malato, di fatto, trascura i sintomi e le avvisaglie, e si trova a letto con un febbrone, o, peggio, talvolta direttamente in ospedale con gravi complicazioni.

Il consulente o il manager che siano chiamati a gestire casi (più o meno gravi) di crisi si trovano quindi di fronte, molto spesso, ad un’azienda che non è riuscita a gestire correttamente le variabili rilevanti e si trova in una condizione complicata, con rapporti con i propri creditori (Banche e Fornitori) che sono spesso difficili e talvolta compromessi.

Nella cassetta degli attrezzi del manager (o consulente) che deve gestire situazioni di crisi, o, meglio, nella valigetta di questo “medico d’azienda”, il primo strumento che spesso serve è, con un termine non simpatico ma necessario: il “commissariamento” [2].

Questa scelta può essere declinata in varie forme: la scelta di un manager esterno cui affidare il risanamento, oppure la nomina di un Advisor per gestire il turnaround, oppure la creazione di una team composito che riferisca al Consiglio di Amministrazione: sono tutte scelte che dipendono anche dalle dimensioni e caratteristiche dell’azienda che abbiamo di fronte, e fanno sì che una parte delle competenze in termini decisionali venga tolta da coloro i quali normalmente le avevano in mano ed affidata ad altri, col compito di superare la crisi, avendone compreso esattamente (si spera) le motivazioni.

Il secondo strumento, strettamente legato al primo, è il seguente: chiudere la cassa. Le risorse a disposizione sono poche, l’azienda normalmente ha flussi di cassa negativi e prospettive incerte; è buona norma che il ristrutturatore tenga sotto stretto controllo ogni fonte di spesa e questo si deve concretizzare in un accentramento decisionale senza precedenti [3]; dal punto di vista organizzativo naturalmente questo porta sempre a malumori, a variazioni anche rilevanti delle procedure (organizzative ed amministrative).

Veniamo però al punto centrale del lavoro di chi deve riorganizzare un’azienda in crisi: il “Piano”; chi arriva, dopo aver fatto la diagnosi (e senza dimenticarsi di aver prima messo al sicuro le chiavi della cassa) deve strutturare una serie di azioni per rimuovere le cause della crisi e pianificare tutti i passi necessari. Spesso questo Piano assume un rilevanza giuridica: abbiamo visto nel post precedente che sono stati introdotti degli strumenti giuridici (i cosiddetti “Piani Attestati”, riferibili agli articoli 67 e 182 bis della Legge Fallimentare) che proteggono le azioni svolte all’interno di determinati piani di riorganizzazione da eventuali conseguenza negative su amministratori e finanziatori. Ma generalmente, al di là dei pur importanti aspetti giuridici, il Piano è lo strumento principale con il quale il risolutore della crisi d’azienda deve fare i conti.

Si tratta infatti del “luogo ideale” in cui si deve dare dimostrazione di aver compreso le motivazioni della crisi e dove si devono ipotizzare le azioni concrete, normalmente su un orizzonte di alcuni anni, cui dare attuazione al fine di mettere concretamente in atto il risanamento. Molto spesso si commette l’errore di considerare queste questioni solo per il loro aspetto puramente finanziario, ed abbiamo visto che frequentemente è su questo aspetto che si concentrano molti degli aspetti della crisi d’azienda; ma nella gran parte dei casi, la questione finanziaria (“la cassa che manca”) è effetto e non causa della crisi, causa che invece risiede in altri ambiti, come abbiamo analizzato in precedenza (il posizionamento di mercato e/o la produttività dell’azienda).

Ecco quindi che chi porta all’attenzione di tutti gli stakeholders (azionisti, fornitori, finanziatori – anche potenziali) un Piano di riorganizzazione deve essere in grado di dimostrare in quale maniera rimuovere le motivazioni che stanno alla base delle difficoltà dell’azienda; così potrà dimostrare di poter tornare alla generazione di cassa e indicare con quali modalità procedere al riequilibrio della situazione finanziaria aziendale.

Strettamente connesso a questa analisi vi è la conseguente “manovra finanziaria”: ho capito come si esce dalla crisi, e mi servono i fondi per finanziare il turnaround, che normalmente vanno richiesti sia agli azionisti che alle banche al fine di tenere in equilibrio il rapporto fra Debito ed Equity; vanno strutturate le modalità tecniche con cui questa finanza deve affluire in azienda; spesso è anche necessario consolidare a lungo termine esposizioni a breve; i finanziatori normalmente richiedono garanzie; talvolta è possibile strutturare operazioni di apertura del capitale a terzi soggetti (Private Equity per esempio, normalmente specializzati in situazioni di turnaround); tutte questioni che devono trovare soluzione in tempi sufficientemente rapidi per dare concreta attuazione alle soluzioni identificate (ed anche la lotta contro il tempo è una delle caratteristiche delle situazioni di crisi).

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Il processo di risanamento di un’azienda, quindi, non è mai un percorso facile, come spero sia stato chiaro dagli elementi, certamente parziali e sintetici, che ho voluto illustrare. Molto spesso è con una certa dose di faciloneria che si affronta questa problematica molto complessa, sia dentro le aziende che nelle cronache ad esse relative; per questo ho cercato di dare alcuni elementi di maggiore conoscenza nella speranza che questi temi siano avvicinati con qualche nozione in più e senza liquidare troppo sbrigativamente questo difficile ambito della gestione aziendale.

Twitter @dorinileonardo

NOTE

[1] Negli anni 2002 e 2003 mi occupai, da consulente, di un caso molto noto di crisi finanziaria; una holding quotata, con un fatturato di circa 500 milioni, aveva acquisito a leva molti importanti marchi e business; l’indebitamento era stato contratto collocando sul mercato Corporate Bonds e i business acquisiti avevano inoltre il loro debito corrente; ciò determinò l’accumulo di circa 500 milioni complessivo di Debito Finanziario (importo quindi pari al fatturato), metà dei quali erano attribuibili alle acquisizioni e la restante parte era debito corrente sui singoli Business; alcuni di questi avevano necessità di essere ristrutturati dal punto di vista industriale, poiché avevano EBITDA negativo, mentre altri erano “sani” da questo punto di vista. Quel Gruppo quindi raccoglieva in sé molte delle dinamiche citate: aveva troppo debito in rapporto al Patrimonio Netto e all’EBITDA ed inoltre aveva la necessità di incrementare questi margini, essendo molti dei business poco redditizi.

[2] A ben vedere, nel 2011, l’avvicendamento fra Berlusconi e Monti alla guida del Paese, fu un classico caso (direi da manuale) di “gestione di crisi”; sintomi per lungo tempo trascurati, sfiducia dei creditori (i possessori del Debito Pubblico), la necessità di “commissariamento”. Possiamo essere o meno d’accordo con ciò che accadde o attribuirgli valenza politica di segno opposto, ma ciò che fu messo in campo fu esattamente un caso di gestione attiva di una crisi finanziaria, riportato nell’alveo delle istituzioni democratiche con i necessari passaggi parlamentari.

[3] Nel 2012 gestii come Chief Restructuring Officer la ristrutturazione di un Gruppo industriale per il tramite di un accordo di ristrutturazione ex. Art. 67 L.F.; l’azienda aveva l’abitudine di saldare i propri fornitori con l’emissione di assegni bancari direttamente alla consegna dei materiali; ebbi purtroppo l’ingrato compito di requisire tutti i libretti degli assegni e di metterli sotto chiave al fine di “chiudere” questo fabbisogno finanziario imprevedibile ed incontrollato.