Reddito di cittadinanza, smettiamola di giocare

scritto da il 10 Marzo 2018

Sembra essersi innescata una gara al ribasso, fatta di speculazioni e smentite, sugli asseriti aspiranti in fila ad alcuni CAF del Sud, desiderosi di poter accedere ai benefici economici del cosiddetto reddito di cittadinanza (“RdC”), cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, partito che ha dominato le recenti elezioni nel Mezzogiorno.

Sgombriamo subito il campo dal trend topic:

  1. Se i casi fossero veri, a prescindere dai numeri, ci sarebbe solo da preoccuparsi, seriamente, e davvero poco per denigrare. Cosa sapremmo delle persone spinte ad andare a chiedere tali informazioni a un centro di assistenza? Magari persone con un basso livello di istruzione, o economicamente disperate, o talmente sole dal non avere un fratello o un nipote a cui chiedere qualche informazione in più “su quella cosa sentita in tv” o letta su qualche incauto manifesto?
  2. Se i casi non fossero veri, il problema del rischio di assuefazione assistenzialista non potrebbe che restare comunque sul tavolo (soprattutto se ci si proietta con la mente a un momento effettivo in cui l’RdC potrebbe essere implementato).

Intendiamoci: il punto sub b) (che rischia l’etichetta di post-verità) non riguarda solo l’RdC, ma tante misure già in vigore, come l’indennità di disoccupazione (“Naspi”) o il reddito d’inclusione (“Rei”) recentemente entrato in applicazione. È un problema strutturale del nostro welfare, che riguarda maggiormente le Regioni meridionali, interessate da redditi notoriamente più bassi e da una maggiore disoccupazione. Non a caso, i primi dati INPS sulle richieste di Rei, evidenziano come il 57,4% delle domande provengano dalle sole Regioni Campania, Sicilia e Calabria.

Tornando all’RdC, sarebbe opportuno che il M5S, ammettesse – anche in politichese – che la sua proposta di legge depositata in Parlamento necessita di essere accantonata. Senza abbandonare il tema, ripartendo dalle fondamenta. Rappresenterebbe un segnale di maturità. Andrebbe accantonata perché, oltre ad essere già obsoleta, presenta innumerevoli problemi, non solo di coperture finanziarie (problema di certo non secondario). Se ci fossero le risorse sarebbe una buona legge? No, a parere di chi scrive. A partire dalla diatriba nominalistica (non è un vero reddito di cittadinanza, ma un ibrido che tocca varie misure), contiene diversi difetti sostanziali, tra i quali:

  1. – Non ha una durata;
  2. – Prevede un importo troppo alto (in caso di famiglie numerose, si avvicina a 2 mila euro mensili);
  3. – Ha una condizionalità di erogazione e mantenimento non stringente;
  4. – Non è coordinata con le misure di welfare attualmente vigenti;
  5. – Distorce gli incentivi economici alla ricerca dell’occupazione: se guadagno 100 in più, perdo 100 di sussidio (trappola della povertà);
  6. – Fonda la sua efficacia sull’efficienza dei centri per l’impiego (“CPI”), più che un’utopia al momento.

L’accantonamento della proposta consentirebbe di riflettere sul tema e di studiare soluzioni compatibili con il sistema socio-economico delle varie aree del Paese, in attesa che si compiano quei passaggi necessariamente propedeutici al buon funzionamento della misura (racchiuse sotto la macro-categoria delle politiche attive del lavoro). Forse si riuscirebbe anche a fare maggior chiarezza sulle esperienze internazionali, spesso citate impropriamente (“c’è in tutta Europa” o “lo voleva anche quel liberista di Milton Friedman”), ragionando su un grande dibattito che interessa accademici e giornalisti di tutto il mondo. Ad esempio vi è molta curiosità sull’esperimento finlandese di universal basic income, iniziato a gennaio 2017 (durerà due anni) su 2.000 disoccupati che stanno ricevendo 560 euro mensili, con il fine ultimo di provare ad elaborare una policy che riesca a semplificare e, possibilmente, rimpiazzare un complesso modello di welfare esistente, giudicato eccessivamente burocratico e dispendioso. Un esperimento come quello finlandese, che dovrebbe costare qualche decina di milioni di euro anziché direttamente decine di miliardi di spesa, può insegnare qualcosa, quantomeno un certo rispetto per le risorse raccolte dai contribuenti con l’imposizione fiscale.

Tornando alla situazione del Mezzogiorno italiano, non possiamo però esimerci dal fare altri distinguo specifici sull’ipotesi di un reddito di cittadinanza (versione 5 stelle). Ad esempio, il dibattito internazionale sulle forme di sostegno universale al reddito continua a crescere principalmente sulla base di due cause che ne giustificherebbero l’adozione:

  • – Globalizzazione e fenomeni di delocalizzazione industriale;
  • – Crescenti timori di disoccupazione tecnologica.

La prima causa ha interessato, e tutt’ora interessa, anche il Mezzogiorno, ma per limitare l’impatto negativo sui lavoratori licenziati a causa di una delocalizzazione, c’è già la Naspi, che può durare fino a due anni. Se qualcuno pensa che il reddito di cittadinanza serva per chi non riesce a ritrovare un’occupazione entro due anni  dal licenziamento, significa che ha una fiducia pari a zero nei confronti delle politiche attive di reinserimento e di recupero della persona.

Passando ai timori di robotizzazione, spesso oggetto di apposito dibattito su Econopoly, verrebbe quasi da dire: magari fossero questi i problemi del Mezzogiorno, sicuramente ancora in ritardo nel cambiamento del tessuto produttivo. Anche con riferimento al Piano nazionale Industria 4.0, scrive la SVIMEZ che «Da nostre analisi sugli effetti territoriali del “Piano nazionale Industria 4.0”16, risulta che le tre principali misure attivate a inizio 2017 (super e iperammortamento, credito d’imposta per gli investimenti in R&S, Nuova Sabatini) costituiscono effettivamente un forte incentivo agli investimenti, ma al Sud rischiano di avere un impatto molto più modesto che al Centro-Nord. Abbiamo valutato, infatti, che la quota di accesso del Mezzogiorno ai tre suddetti interventi non raggiunga il 10% del totale delle agevolazioni».

Le condizioni del Mezzogiorno non giustificherebbero l’adozione della misura, perlomeno se prendiamo a riferimento il dibattito internazionale. Quest’ultimo, in termini più generici, muove da una base comune: le economie avanzate si devono dotare di strumenti di welfare, per tutelare chi resta indietro. Ma nel caso del Mezzogiorno, il problema del “chi resta indietro” non riguarda unicamente singoli individui in difficoltà all’interno di una società benestante (seppur affetta da disuguaglianze), bensì intere Regioni:

  • – 18,2 mila euro di Pil per abitante contro i 34,2 mila del Nord-Ovest;
  • – una quota di redditi da lavoro che derivano da amministrazioni pubbliche che arriva fino a picchi elevatissimi (53,2% in Calabria) e scende – sempre in Calabria – a un misero 6% se ci si sposta sul settore industriale (dati Istat);
  • – quattro regioni (Calabria, Sicilia, Campania, Puglia) tra le sole sei regioni dell’intera Unione europea che nel 2016 hanno fatto registrare un tasso di occupazione (età 20-64) inferiore al 50% (dati Eurostat);
  • – un tasso di disoccupazione giovanile che in alcuni casi (Calabria, Sicilia, Sardegna) sfiora il 60% (SRM-Confindustria);

Allora smettiamola di giocare, perché se bisogna aiutare chi è in condizioni di indigenza, si lavori sul reddito di inclusione già in vigore, che – sostanzialmente e salvo alcune differenze – non è altro che il reddito di cittadinanza proposto dal M5S con un importo molto minore (può arrivare massimo fino a 485 € mensili). Ma che non si illudano ulteriormente le persone, spacciando l’RdC come una misura di politica economica e di crescita, perché non saranno questi gli interventi volti ad impedire il drammatico brain drain che affligge le Regioni meridionali – semmai si ritarderà qualche partenza – né a migliorare il sistema economico del Mezzogiorno.

Cerchiamo di investire le risorse disponibili per fare in modo che un ragazzo meridionale possa studiare in scuole e università degne di questo nome, possa trovare lavoro nella sua terra, possa avere la possibilità reale (e non teorica) di intraprendere una strada imprenditoriale, un’idea. Cerchiamo di capire cosa impedisca la crescita delle aziende o l’afflusso di investimenti produttivi da parte di grandi aziende italiane o multinazionali.

E, in ultimo, non pensiamo unicamente alle analisi del voto, che hanno la loro importanza, ma offuscano la visione dei problemi sottostanti all’esercizio del diritto di voto stesso, sottovalutano il vincolo di dover necessariamente scegliere tra un’offerta politica di dubbia qualità, e minano la coesione nazionale, ingigantendo pregiudizi territoriali oltre la dovuta misura.

Twitter @frabruno88