Il costo salato della denatalità italiana per Pil e redditi. E sull’immigrazione…

scritto da il 02 Aprile 2018

Quando si crede di aver ormai letto tutto sui rischi connessi alla grave denatalità che affligge il nostro paese, esce un bel paper di Bankitalia che ci mostra un aspetto finora poco osservato, ossia l’influenza che tale situazione ha sul livello della nostra crescita economica, presente ma soprattutto futuro. Cominciamo da un dato, riportato dall’istituto tedesco di statistica che fotografa bene la nostra situazione: siamo il fanalino di coda in Europa, insieme con la Spagna, per indice di fertilità.

Il dato è sconfortante perché non rappresenta un episodio, ma una chiara tendenza confermata dalle rilevazioni Istat. Il paper di Bankitalia ci consente di avere una buona visione d’insieme nel lungo periodo. Il tasso di natalità in Italia ha un andamento declinante ormai secolare.

Tutto ciò ha un effetto evidente sulle dinamiche della popolazione, che non può che diminuire, in conseguenza del gap fra i nati vivi e i defunti.

Questo trend ha un effetto determinante su quello che gli statistici chiamano indice di dipendenza, ossia il rapporto fra la popolazione anziana e quella in età lavorativa. Anche su questo fronte, la posizione italiana, come documentato dal recente bollettino della Bce, non è delle migliori.

A trend inerziale, fra cinquant’anni il numero degli anziani inattivi sarà superiore al 60% di chi è in età lavorativa. Ciò non ha soltanto effetti sulla capacità dei governi di sostenere i sistemi previdenziali. Ma porta con sé altre conseguenza che sono squisitamente macroeconomiche, e della quali si occupa lo studio di Bankitalia. L’analisi (“Il contributo della demografia alla crescita economica: duecento anni di storia italiana”) è focalizzata nell’osservazione di come l’andamento demografico, e quindi la composizione della popolazione, abbiano influenzato nel passato gli andamenti economici e come li influenzino adesso. La conclusione lascia pochi spazi a dubbi: “Le modifiche nella struttura per età della popolazione hanno prodotto nel passato più lontano un demographic dividend positivo. Al contrario, negli ultimi venticinque anni e con ogni probabilità nel futuro, la demografia ha dato e darà un contributo diretto sensibilmente negativo alla crescita economica. I flussi migratori previsti limiteranno l’ampiezza di tale contributo negativo, ma non saranno in grado di invertirne il segno”.

In sostanza gli economisti di Bankitalia asseverano un principio molto semplice: la crescita di un’economia dove gli anziani sono una maggioranza relativa tende a rallentare. È una delle congetture alla base dell’ipotesi della cosiddetta stagnazione secolare, teoria che risale agli anni ’30 e che ha ripreso vigore all’indomani della crisi finanziaria. Il portato di questa congettura è assai semplice: la speranza di vita nel 2065 potrà pure arrivare a superare i 90 anni per le donne e gli 86 per gli uomini, come stimano le previsioni Istat. Ma a tale miglioramento è inevitabilmente connesso il peggioramento delle condizioni economiche.  Per comprenderne le ragioni, basta osservare che secondo le stime Istat, sempre nel 2065, la popolazione residente in Italia dovrebbe attestarsi sui 53,7 milioni, ben 7 milioni in meno di oggi (-11%). E meno persone significa economia più piccola. “Il dividendo demografico – scrivono gli autori – ossia la crescita economica che, sul piano contabile, può derivare dall’aumento nella quota di popolazione in età lavorativa è già divenuto negativo a partire dall’ultimo decennio del XX secolo”.

Ci sarebbe da chiedersi come mai il cambiamento strutturale della nostra popolazione, che ha condotto i più anziani a superare i più giovani, si sia innescato dal secondo dopoguerra per accelerare vistosamente dalla fine degli anni ’80. Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano. Ci basti sapere che nel 2017 gli anziani sono il 165% dei giovani 0-14 enni, e tale rapporto è previsto in crescita. Ciò impatterà sul totale delle persone in età lavorativa, che diminuisce da venticinque anni. L’immigrazione in qualche modo servirà a rallentare questa flessione. Si stima che nel 2061 un quarto della popolazione in età lavorativa sarà composta da stranieri. Se così non fosse, la quota dei 15-64enni, ossia la popolazione in età lavorativa, scenderebbe al 40% del totale. Ma pure con l’ingresso degli stranieri non si supererà il 55%.

L’analisi degli economisti di Bankitalia consente di osservare che il contributo della demografia alla crescita, definito come dividendo demografico (DD) e calcolato come la differenza nelle dinamiche della popolazione in età da lavoro (WAG) e della popolazione complessiva (POP) ha iniziato a pesare negativamente sul pil pro capite a partire dagli anni ’90.

Interessante osservare anche il confronto con altri paesi, in particolare Germania, Francia, Spagna, Gran Bretagna e Usa. Emerge che “in Italia il contributo della produttività alla crescita del prodotto pro capite è per quasi tutto il Novecento più alto della media degli altri paesi, diviene significativamente negativo nel primo decennio del nuovo millennio”. In generale “il contributo della struttura demografica italiana è decisamente negativo e inferiore agli altri paesi avanzati” e sarebbe stato anche peggiore “se non fosse intervenuto negli ultimi 25 anni un significativo flusso migratorio in entrata”. Nel 1981 i cittadini stranieri residenti in Italia erano poco più di 200.000, lo 0,4 per cento della popolazione, mentre sono diventati poco più di 5,1 milioni all’inizio del 2018, l’8,4 per cento della popolazione. L’immigrazione ha avuto effetti positivi sulla crescita, per la semplice ragione che ha aumentato il numero di persone in età lavorativa.

“Particolarmente importante è risultato il contributo alla crescita del PIL nel decennio 2001-2011: la crescita cumulata è stata positiva per 2,3 punti percentuali mentre sarebbe risultata negativa e pari a -4,4 per cento senza l’immigrazione”. Un dato che merita di essere sottolineato.

Quanto al futuro, c’è poco da essere ottimisti. Il dividendo demografico diverrà negativo, malgrado l’afflusso di stranieri, replicando una dinamica che si osserva anche in paesi dove la popolazione è prevista in aumento, come Francia e Gran Bretagna. Sulla base di alcune congetture Bankitalia elabora tre scenari, molto diversi quanto ai risultati, che però hanno in comune un punto: nei prossimi 45 anni il Pil subirà una pressione al ribasso a seguito delle dinamiche demografiche a meno che non si riesca ad aumentare drasticamente la produttività.

Nello scenario benchmark, “l’effetto meccanico delle dinamiche demografiche determinerebbe in 45 anni un calo del Pil del 24,4 per cento rispetto ai livelli del 2016 e del 16,2 per cento in termini pro capite (-0,4 medio annuo), a parità di altre condizioni”. Se si azzerasse l’immigrazione (scenario 3) “il livello del PIL aggregato risulterebbe dimezzato con un calo del 50 per cento (a fronte di -24,4 per cento nel caso benchmark)”. Il livello del reddito pro capite sarebbe un terzo rispetto al livello del 2016.

Compensare queste dinamiche demografiche avverse non è per nulla semplice. Bankitalia individua tre strumenti: aumento dell’età pensionabile, aumento della partecipazione delle donne al lavoro, aumentare la dotazione di capitale umano per avere maggiore efficienza e quindi produttività. Purtroppo, “sotto questi tre profili – partecipazione femminile, età effettiva di pensionamento, grado di istruzione della forza lavoro – l’Italia si colloca su livelli nettamente inferiori alla media dei principali paesi avanzati”.

La qual cosa, malgrado possa scoraggiare, implica che abbiamo ampi spazi di miglioramento. Senonché se la politica finora ci ha condotto fino a questo punto, è lecito dubitare della sua (nostra) capacità di tirarci fuori da questa situazione. È più probabile che le cose seguano il loro corso naturale. E non finiscano bene.

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