Ci sono limiti al debito pubblico? (e come provare ad abbassarlo)

scritto da il 24 Aprile 2018

Cosa potremmo pensare se ci venisse detto che non esiste un limite oltre il quale uno Stato può indebitarsi? Qualcuno potrebbe pensare che si tratti del pensiero del solito sciroccato che ha studiato economia su internet, oppure del delirio di qualche nuovo personaggio a caccia dei suoi dieci minuti di attenzione. Torneranno certo in mente i ricordi di default di Stati non così lontani nel tempo: Argentina, Russia, Venezuela, Grecia e Ucraina, solo per citarne alcuni dei più recenti.

Allora, chi potrebbe mai affermare “le stime puntuali del differenziale medio tra il tasso d’interesse e quello di crescita sono frequentemente negative nei Paesi avanzati. Se vero, le conseguenze sarebbero piuttosto sgradevoli: a meno che i governi non si impegnino verso deficit infinitamente larghi, possono emettere tutto il debito che vogliono senza diventare insolventi” ?

Lo dice Philip Barrett, un economista del Fondo Monetario Internazionale. In un recente working paper, diffuso dal FMI, Barrett fornisce una stima di quale possa essere il livello del debito pubblico oltre il quale il mercato non sarà più disposto a sottoscriverne di nuovo e lo Stato dovrà perciò dichiarare il default. Il lavoro ha infatti lo scopo di verificare se l’abbassamento dei tassi d’interesse avvenuto dalla crisi del 2008 abbia modificato il limite massimo al debito dello Stato di un Paese avanzato. Sebbene venga individuato che i recenti bassi tassi d’interesse non abbiano spostato in modo decisivo il limite oltre il quale uno Stato rischia di andare in bancarotta, Barrett rileva come il differenziale medio tra tasso d’interesse e crescita nominale del Pil sia il parametro che ha la massima importanza nelle valutazioni sulla sostenibilità del debito pubblico, e che questo parametro sia stato storicamente (dal 1880) negativo per i Paesi avanzati. Non esisterebbe pertanto un limite oltre il quale uno Stato di un Paese avanzato possa indebitarsi.

Tutto ok, dunque. Lasciamo perdere dibattiti sul rischio debito pubblico e lasciamo che lo Stato faccia quanto deficit voglia.

Beh, non è così semplice. Il fatto che nei Paesi avanzati tale differenziale sia stato mediamente negativo non significa che lo sia stato in tutti i Paesi, e che non vi siano stati momenti sufficientemente lunghi in cui esso sia positivo, nei quali la percezione del mercato sulla sostenibilità del debito sia differente rispetto alla media del periodo.

Vediamo quindi il caso italiano.

Utilizzando lo stesso database di Barrett ho ricostruito in figura 1 il differenziale tassi d’interesse e crescita (interest rate-growth differential, IRGD) per l’Italia dal 1922, primo anno da cui i dati non presentano break temporali.

1Figura 1. IRGD – Differenziale tra tasso d’interesse (i) e crescita (g). Fonte dati: Jordà-Schularick-Taylor Macrohistory Database

Il valore medio di entrambe le serie, una costruita sulla base dei tassi d’interesse a breve termine, l’altra con i tassi a lungo termine, sono negativi: -6,3 il differenziale medio utilizzando i tassi a breve termine; -5,14 con quelli a lungo termine. Anche prendendo in considerazione il valore mediano, si ha in entrambi i casi un differenziale negativo. Considerando quindi un orizzonte temporale sufficientemente lungo, l’Italia registra, così come gli altri paesi avanzati, un IRGD che eviterebbe allo Stato di andare in default qualunque sia il deficit.

Il problema di questo tipo di conclusione è che avere rilevato un valore medio negativo non significa che il differenziale sia stato negativo per tutto il periodo considerato. Questo problema assume una decisa importanza alla luce del fatto che il debito pubblico, piuttosto che avere scadenza indefinita, deve essere periodicamente rinnovato. Può così accadere che in determinate scadenze, quando il valore di IRGD è positivo, sia prestata maggiore attenzione al saldo primario del bilancio pubblico. Attraverso un adeguato saldo primario lo Stato riesce a tenere sotto controllo la dinamica del debito, in modo che esso non raggiunga un valore insostenibile (sebbene in generale non sia stato chiaramente individuato un valore del rapporto debito/Pil oltre il quale uno Stato debba fare default, anche Barrett evidenzia che con IRGD positivo è essenziale che via sia un saldo primario tale da stabilizzare il debito entro un certo valore finito).

Se perciò prendiamo la lente di ingrandimento e focalizziamo l’attenzione sugli ultimi 35 anni della figura 1, si vede come il valore di IRGD sia stato quasi sempre positivo. In questi ultimi decenni, come abbiamo imparato a conoscere, l’attenzione è stata rivolta soprattutto a quale debba essere il saldo primario che lo Stato doveva raggiungere per stabilizzare o ridurre il rapporto debito/Pil, dato che il contributo dei tassi d’interesse e della crescita nominale spingeva questo rapporto verso l’alto. Frequentemente però questa attenzione è riposta in modo da considerare il saldo primario come una variabile totalmente esogena al sistema, raggiungibile indipendentemente dalle condizioni economiche del Paese. Si sente spesso sui media ripetere che con saldi primari al 3, al 4 o al 5 per cento si possa raggiungere in breve tempo un rapporto debito/pil di totale sicurezza, tale da poterci far dormire sonni tranquilli.
Ma allora mi chiedo: perché esser così timidi? Se un valore ad esempio del 4%, può risolvere il problema in pochi anni, perché non puntare ad un surplus primario del 10, o del 20 per cento, e risolvere il problema in molto meno tempo?

Anche in questo caso la risposta è abbastanza scontata, perché non si può prescindere dalle condizioni economiche del Paese. Non si può prescindere dal considerare il modo con il quale una riduzione delle spese o un aumento delle tasse, disposti al fine di migliorare il saldo primario, impatta sull’economia del Paese in termini di crescita (e quindi di IRGD) e di entrate complessivamente incamerate dallo Stato. Può capitare, come avvenuto durante l’esperienza del Governo Monti, che impostare un surplus primario troppo in alto, senza considerare le condizioni economiche e finanziarie del Paese, porti a conseguenze peggiorative anche per il rapporto debito/Pil. Peggiorative sia perché la contrazione economica generata riduce il gettito atteso, sia perché può innescarsi il cosiddetto effetto palla di neve (snowball), un effetto tanto più elevato quanto più elevato è il moltiplicatore fiscale.

Come una palla di neve che rotola da una montagna diventando sempre più grande, anche un differenziale positivo tra tasso d’interesse e crescita può fare in modo che il rapporto debito/Pil sia sempre più grande con l’andar del tempo. Il saldo primario che si vuol raggiungere deve quindi esser in grado di non compromettere la crescita nominale dell’economia, di non amplificare, come invece avvenuto nel 2011, questo effetto snowball. In presenza di alti moltiplicatori fiscali, la correzione di bilancio pubblico viene amplificata dal sistema economico in termini di crescita e così, come si può vedere dalla figura 2, nel periodo 2011-2015, l’effetto di riduzione del debito ottenuto con un maggiore saldo primario è stato più che compensato dall’effetto snowball, rendendo la dinamica del debito ancora più pericolosa.

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Figura 2. Dinamica e componenti del rapporto debito pubblico/Pil dell’Italia. Elaborazione su dati IMF World Economic Outlook vers. Aprile 2018

Arrivati a questo punto, dopo aver visto che non è detto che anche uno Stato che ha un IRGD mediamente negativo possa sempre esser al riparo dal default, perché possono esserci periodi anche sufficientemente lunghi in cui questo differenziale è positivo; e dopo aver visto però che quando l’IRGD è positivo non è possibile fissare con un approccio meramente contabile l’obbiettivo di saldo primario, perché occorre considerare quali siano i moltiplicatori e le retroazioni sull’economia reale in quel determinato contesto; proviamo a verificare, senza pretesa di scientificità, quale possa essere, attualmente, una manovra fiscale che riesca a tener maggiormente sotto controllo il rapporto debito/Pil .

Ho ipotizzato due tipi di saldo primario obbiettivo: uno espansivo, realizzato attraverso un aumento delle spese per investimenti pari al surplus primario dello scenario base, ipotizzando nessuna retroazione monetaria ed il mantenimento della stessa pressione fiscale rispetto allo scenario base ricavato dal recente World Economic Outlook del FMI; l’altro restrittivo, riducendo la spesa pubblica per stipendi e consumi intermedi in modo da portare il surplus primario al 4% del Pil, anche in questo caso senza nessuna modifica della pressione fiscale e della stance monetaria. Entrambi gli scenari sono stati poi ampliati introducendo l’ipotesi che la politica monetaria della BCE venga normalizzata molto più lentamente rispetto a quanto ipotizzato dal FMI ed i tassi mediamente pagati sul debito siano convergenti verso quelli attualmente in essere.

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Figura 3. Evoluzione del rapporto debito Pubblico/Pil secondo lo scenario di base ricavato dal IMF World Economic Outlook versione Aprile 2018; secondo lo scenario espansivo con aumento della spesa pubblica per investimenti tale da azzerare in ogni periodo il saldo primario dello scenario base; secondo lo scenario restrittivo con riduzione di spesa pubblica per stipendi e consumi intermedi coerente con l’obbiettivo di surplus primario al 4% del Pil. Ciascuno scenario ipotetico è valutato con l’ipotesi di tassi d’interesse tali da far convergere il tasso medio del debito verso il tasso all’emissione che attualmente viene riconosciuto per le scadenze pari alla vita media del debito. Elaborazione su dati WEO IMF e Nota di aggiornamento al DEF 2017

Come si vede, con la manovra espansiva nel 2021 verrebbe raggiunto lo stesso rapporto di debito/Pil dello scenario base, ma con un surplus primario più basso, e attraverso una crescita economica molto più alta. Se poi l’ambiente di tassi d’interesse dovesse rivelarsi più favorevole rispetto allo scenario base, il rapporto debito/Pil, alla fine del periodo, sarebbe inferiore di circa 5 punti di Pil. Viceversa, la manovra restrittiva porterebbe il rapporto debito/Pil su un sentiero insostenibile, anche nel caso in cui i tassi d’interesse fossero più favorevoli.

Non tenendo conto di tanti altri fattori, quali, ad esempio, come si modificano i conti esteri (che così tanta importanza hanno avuto nelle decisioni di politica economica degli scorsi Governi) questo semplice esercizio non può certo avere una pretesa di scientificità, ma può far riflettere su come debbano esser prese le decisioni di politica economica. Si può riflettere sul fatto che una variazione delle spese, in aumento o in diminuzione, così come delle imposte, non può esser valutata fuori dal contesto economico entro il quale è collocata.

L’errore fondamentale della politica seguita dal Governo Monti credo sia stato proprio quello di intervenire in modo così importante in un contesto economico già sottoposto ad una restrizione monetaria (nel 2011 la BCE aumentò per due volte i tassi d’interesse) ed a stress finanziario (data la fuga di capitali già in atto), un contesto nel quale non era difficile ipotizzare che i moltiplicatori fossero elevati, così come poi ha rilevato lo stesso ministero dell’Economia e delle Finanze.

Attualmente, se il ragionamento viene fatto prendendo in considerazione i moltiplicatori che utilizza il MEF (e non moltiplicatori riferiti a Paesi da noi lontani e/o a periodi di tempo passati), dato l’elevato rischio di amplificare l’effetto snowball, suggerire il raggiungimento di surplus primari che pochi altri Paesi al mondo sono riusciti a raggiungere pare molto simile a suggerire al paese di dichiarare bancarotta. A pensarci bene questo tipo di suggerimenti non è poi così distante da quello di chi ipotizza che lo Stato possa indebitarsi all’infinito senza mai correre il rischio di dover dichiarare default.

P.S. Ok, il post è già abbastanza lungo ma, se siete arrivati fin qua, volevo condividere un ultimo pensiero che ho avuto scrivendolo, e riguarda come la struttura dell’eurozona possa, nella sua continua imperfezione, raggiungere un equilibrio nel trattamento dei debiti pubblici degli Stati membri. Posto che con IRGD negativo un debito tenderà sempre a convergere su un valore finito e sostenibile, chissà che non si arrivi ad avere una BCE che oltre all’obbiettivo di inflazione non persegua implicitamente anche quello di crescita nominale? Un obbiettivo che permetta agli Stati membri di aver sempre un IRGD negativo anche con spread sui rendimenti differenti da zero. Se magari può sembrare fanta-economia, ed anche a me adesso pare tale, si deve però ricordare che in pochi potevano immaginare, solo qualche anno fa, che la BCE potesse giungere ad un programma di quantitative easing più grande di quello della Federal Reserve.

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