Immigrati? Li abbiamo creati noi. Si chiudono i porti e si trascura la storia

scritto da il 14 Giugno 2018

Come spesso accade, il dibattito su temi d’attualità appare del tutto slegato dalla storia, dalla conoscenza e – mi sia concesso! – dall’esperienza fatta sui banchi di scuola. Si parla della questione ‘migranti’ e del caso Aquarius, ma nessuno sembra ricordare il colonialismo moderno e contemporaneo, neppure i più colti tra i salviniani. Il continente africano è stato colonizzato per quasi un millennio, il suo territorio è stato oggetto di continue e sanguinose spartizioni, le sue risorse sono state sfruttate fino al saccheggio, la sua popolazione schiavizzata. La Francia ne è stata protagonista indiscussa, ma Paesi Bassi, Germania e Italia o Spagna non sono rimaste di certo a guardare. Di conseguenza, oggi l’Europa ha, anzitutto e per lo meno, il dovere di riesaminare i cambiamenti della cartina politica africana degli ultimi due secoli.

La Libia, il cui corridoio migratorio tanto impressiona i paladini dell’Italianità, fino a poco prima della fine della seconda guerra mondiale (1943), era, in parte, una colonia italiana. Giolitti ne aveva invaso il territorio nel 1911. Gli smemorati hanno sicuramente dimenticato che il nostro paese aveva addirittura un Ministero delle Colonie; il che ci dice molto su quanto dovesse essere fruttuosa la faccenda, faccenda che i più, forse, bollano come conclusa in quegli anni. Di fatto, non è così, se consideriamo che Mu’ammar Gheddafi, il socialista Gheddafi, giunge al potere nel 1969, resta in carica per più di quarant’anni, senza mai ricevere alcuna forma di consenso o investitura ufficiale, ed è ampiamente accolto dalla finanza italiana in qualità di azionista di UniCredit, Finmeccanica e Juventus. Il 20 ottobre 2011 viene ucciso. In poco tempo, com’è noto, il fronte rivoluzionario, dopo avere conquistato Cirenaica e Tripolitania, mette sotto assedio anche Sirte, finendo col trucidare il dittatore. Di colpo, la comunità internazionale decide di sostenere gli insorgenti. Esattamente quattro giorni dopo la morte di Gheddafi, il gasdotto Mellitah-Gela, che era stato disattivato a causa dei fermenti bellici, viene riattivato.

Muammar Gheddafi

Mu’ammar Gheddafi

Si ipotizzò, in quei giorni, complice la cocente dedizione di Stati Uniti e Francia, che l’affare libico valesse 130 miliardi. Nessun giudizio, per carità, ma un invito alla riflessione critica sì. In quello stesso 2011, registriamo la caduta di Zin El-Abidine Ben-Ali, presidente tunisino per più di vent’anni, e di Hosni Mubarak, presidente egiziano: una sorta di copione. Di certo, non stiamo parlando di guide illuminate, ma è evidente che questi uomini, fino a un certo punto, hanno governato col consenso della comunità internazionale, accogliendo investimenti occidentali d’ogni genere e specie. Dunque: possiamo dire sbrigativamente “chiudiamo i porti”, dopo aver giovato di taluni compromessi geopolitici?

La risposta non è semplice, è vero. E non bisogna giocare con le provocazioni.
Alle luce delle recenti, infide e insane dichiarazioni di Macron, non possiamo fare a meno di volgere lo sguardo all’opera francese in Africa. Anche i più indisciplinati salviniani dovrebbero sapere della guerra franco-algerina, conclusasi solo nel 1962 con l’indipendenza dell’Algeria, ma con inaccettabile spargimento di sangue. L’impero francese, fino agli anni Sessanta, si traduceva nell’occupazione di Congo, Niger, Costa d’Avorio, Ciad, Benin, Mali, Guinea, Repubblica Centrafricana, Camerun, Togo. E la lista potrebbe essere arricchita. In Congo, per esempio, imperversa da sempre una terribile faida per l’accaparramento delle miniere di coltan, minerale acquistato dalle multinazionali dell’elettronica per la realizzazione di dispositivi come telefoni cellulari e pc. Il denaro incassato dai guerriglieri serve poi a finanziare guerre civili e la barbarie che purtroppo ci è nota. E non possiamo stupirci o fingerci sgomentati. La retorica del perbenismo è come un grosso centro commerciale dentro il quale ciascuno può acquistare la sensazione che preferisce sapendo di potere uscire da lì indisturbato e con un minimo di approvazione. In pratica, la sopravvivenza di una comunità ha un prezzo e qualcuno deve pur pagarlo. Il nostro Ministro dell’Interno non eccelle per eleganza e sensibilità, ma se, come dice Macron, l’Italia “è cinica e irresponsabile”…

Emmanuel Macron

Emmanuel Macron

La fine dell’epoca coloniale ha generato stati fantasma con a capo, spesso, dittatori spregiudicati e sanguinari. Non è lontana nel tempo la tragedia ruandese, una guerra fratricida svoltasi nei primi anni novanta fra Hutu e Tutsi, due etnie dello stesso paese. Le stime fatte in quel periodo dall’ONG Human Rights Watch si attestano intorno al milione di morti. Ciò che risulta raccapricciante in questa è l’origine dei mali: la separazione razziale tra i due gruppi fu creata artificiosamente dal governo belga, che per mandato della Società delle Nazioni esercitò il controllo sul territorio fino al 1946. Gli istituti di ‘mandato’ internazionale nacquero in seno alla Società delle Nazioni come risposta alla disgregazione degli imperi sconfitti della prima guerra mondiale, quello tedesco e quello ottomano. Gli stati mandatari avrebbero dovuto garantire lo sviluppo del territorio gestito, ma ne conseguì uno sfruttamento impietoso delle risorse naturali, petrolio, oro, diamanti et cetera. Quando subentrò l’ONU, nel 1945 era già troppo tardi, per così dire.

Il Regno Unito, per esempio, ricevette mandato per la Palestina, tuttavia l’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) e l’ONU, mediante la risoluzione 181, nel 1947, chiesero l’allontanamento dell’Inghilterra dalla zona e la spartizione del territorio tra Stato palestinese e Stato ebraico. Solo Gerusalemme sarebbe rimasta sotto l’amministrazione dell’ONU. Oggi, sappiamo bene che questo non è mai accaduto. Anzi, l’agenzia ebraica continuò a espandersi con notevoli acquisizioni territoriali ai danni del popolo arabo.

Se rientriamo in terra d’Africa, non possiamo trascurare l’angariata terra del Darfur, anch’essa soggetta a dominio britannico fino alla metà degli anni Cinquanta. Si tratta, in sostanza, di quella fascia subsahariana che è sempre al centro delle controversie di diritto internazionale e sulla cui tragedia è assai difficile anche produrre delle stime. Anche se l’inizio ufficiale della guerra è fissato nel 2003, sappiamo bene che il quadro motivazionale è molto complesso, tanto che tra i fattori si possono sicuramente includere l’emarginazione economica ai danni dei popoli a ovest del Sudan, lo scontro religioso e la natura ambigua dei finanziamenti inglesi. Tra le altre cose, a complicare la situazione intervenne proprio il noto Gheddafi con progetti di supremazia araba e di politica di unione lungo il Sahel. Orbene, è chiaro che queste incursioni nella storia del colonialismo del XX secolo sono incomplete e ingenerose. Pertanto, gli haters dell’ultima ora, quelli sotto mentite spoglie, talora pure incravattati e ‘assolti da spurie confessioni di fede’, prima di pensare a ridiscutere la Convenzione di Dublino e la concessione del diritto d’asilo, dovrebbero tornare a scuola.

Guerriglieri nel Darfur

Guerriglieri nel Darfur

Ecco cosa scrisse a tal proposito, più di quarant’anni fa, Jean-Paul Sartre, nella prefazione a I dannati della terra di Frank Fanon:

“(…) I coloni son costretti ad arrestare l’addestramento a metà: il risultato, né uomo né bestia, è l’indigeno. Picchiato, sottoalimentato, ammalato, impaurito, ma fino a un certo punto soltanto, egli ha, giallo, nero o bianco, sempre gli stessi tratti di carattere: è un pigro, dissimulatore e ladro, che vive di nulla e non conosce altro che la forza (…) Tre generazioni? Fin dalla seconda, appena aprivano gli occhi, i figli hanno visto percuotere i loro padri. In termini psichiatrici, eccoli ‘traumatizzati’. Per la vita. Ma quelle aggressioni senza tregua, rinnovate, anziché spingerli a sottomettersi, li buttano in una contraddizione insopportabile di cui l’europeo presto o tardi farà le spese (…)”.

Nessun paese potrà mai permettersi accoglienza indeterminata, ma la coscienza dei fatti e delle cause è parte essenziale del principio di integrazione culturale.

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