Quanto odio verso i Benetton: l’Italian Dream è impossibile?

scritto da il 01 Settembre 2018

Se un bel giorno cominciasse a circolare sui social network la storia di un uomo cresciuto in un paesino di diecimila anime, lontano dalla grande società, figlio di un umile noleggiatore di auto e bici, impegnato a lavorare duramente già all’età di dieci anni e, da ultimo, divenuto conquistatore del grande mercato, dall’Italia a New York, passando per Parigi, molto probabilmente, nessuno rinuncerebbe a un osanna e tutti si lascerebbero catturare dalla sua caparbietà e dalla sua commovente scalata.

Il modello è quello del sogno americano, quell’American Dream che siamo abituati a goderci trasognati nelle convincenti commedie hollywoodiane fatte di dollari ed eroi. Nostro malgrado, il proverbio secondo cui l’erba del vicino è sempre più verde o, come dicono gl’inglesi, the grass is always greener on the other side of the fence, ha la meglio sulla nostra capacità di talent scout. E non è un caso, infatti, che la cinematografia di riferimento sia prevalentemente statunitense e così pure la narrativa. Cinema e letteratura, in qualche modo, rispecchiano un certo sentimento nazional-popolare, forse anche il livello di autostima di un popolo e il modo in cui gli ‘istitutori’ ne sono interpreti e difensori.

Tamir Sapir

Tamir Sapir

Chi mai dalle nostre parti ha portato in trionfo la storia di un Tamir Sapir italiano? Tamir Sapir è oggi un milionario, ma, quando arrivò negli Stati Uniti dalla Georgia, era un tassista. Qual mai editore dalle nostre parti ha pubblicato e promosso degnamente un Horatio Alger italiano? Horatio Alger era un romanziere americano del XIX secolo che narrava proprio le vicende di chi, partendo da una condizione di povertà e di estremo bisogno, riusciva a raggiungere il successo e il benessere. Noi, evidentemente, all’ammirazione e al motto ‘l’unione fa la forza’ preferiamo il culto dell’invidia totemica nei confronti di chi ‘ce l’ha fatta’, una sorta di rinforzo libidico freudiano che ammorba da più di cinquant’anni l’economia italiana.

Luciano Benetton

Luciano Benetton

Quel bimbo di dieci anni era Luciano Benetton, oggi trasformato in un mostro, assieme alla famiglia, da chi avrebbe dovuto difendere le eccellenze italiane e il diritto e condannato dalla piazza sulla base di un processo sommario e socio-mediatico. È vero, a causa del crollo del ponte Morandi sono morte 43 persone, ma ciò non implica che regolamenti, principi di responsabilità, sistemi di vigilanza e gli inalienabili fondamenti d’una democrazia debbano essere revocati in dubbio. Quel bimbo di dieci anni, che, lavorando duramente, è diventato multimilionario, oggi dà lavoro a più di 70.000 persone; la qual cosa nei termini dell’economia reale si traduce in benessere, reddito pro capite, opportunità di sviluppo, qualità dell’offerta e tanti altri insostituibili mattoni di una società.

Che cosa impedisce al cittadino comune e che adesso inveisce contro i Benetton di attendere i tempi di cui la magistratura ha bisogno per accertare le colpe? Quale costituzione permette al potere esecutivo di calpestare quello giudiziario? Non intendiamo entrare nel merito giurisprudenziale della vicenda sia perché questo lavoro è stato fatto egregiamente da autori più competenti in materia (Francesco Bruno) proprio su questo blog sia perché il nostro focus è costituito dall’economia comportamentale e dal tentativo di ripristinare l’esame della realtà.

Fabio Riva

Fabio Riva

C’è ragione di credere, nello stesso tempo, che certi imbonitori non conoscano affatto la struttura di un’azienda e meno che mai di una SpA quotata: in ordine sparso, i concetti di controllo di gestione, risorse umane, ricerca e sviluppo et cetera si possono apprendere o sui libri o sul campo, ma, se non hai mai studiato e non hai mai lavorato, allora non sai qual è il rapporto tra un maggior azionista, un presidente del consiglio di amministrazione e un capocantiere e finisci coll’assegnare meriti e demeriti a seconda dell’audience politico-elettorale. La settimana scorsa, a tal proposito, Leonardo Dorini aveva già scritto: “Si tende sempre a far coincidere una famiglia imprenditoriale con l’azienda, il suo management, le sue sorti: la FIAT è sempre stata Agnelli, ILVA significa(va) Riva, Benetton significa tante cose, fra cui certamente Autostrade (…)”.

I Benetton sono universalmente noti come titolari dei marchi United Colors of Benetton e Sisley, ma hanno, tra le altre cose, il 2,11% di Mediobanca e il 3,04% di Generali. L’holding finanziaria di proprietà della famiglia che sta al centro del loro business, invece, si chiama Edizione e possiede il 100% del Gruppo Benetton, di Maccarese, di Benetton Sport e di Schema34, che, a propria volta, possiede il 50,01% di Autogrill. La società Benetton che più c’interessa chiamare in causa alla luce della tragedia di Genova e il cui 100% appartiene pure a Edizione è sicuramente Sintonia, essendo, quest’ultima, titolare del 30,25% di Atlantia, del 32,71% di Eurostazioni e del 7,44% di Alitalia.

A voler essere lucidi e ragionevoli e pur rendendosi conto del momento di dolore, dato che la sventura sarebbe potuta capitare a ciascuno di noi, Benetton compresi, abbiamo il dovere di capire che fare altri danni, oltre a quelli umani inestimabili, potrebbe, nel tempo, causare la sventura per tante altre famiglie. Com’è stato fatto notare da alcuni rispettabili autori ed esperti del mondo delle imprese, per esempio, l’azionariato di Atlantia, oltre che da Edizione, HSBC e dal fondo Gic di Singapore, è costituito da un flottante del 45,46%, cioè da una quantità di azioni interamente nelle mani di liberi investitori.

La smania giustizialista che ha condotto il titolo Atlantia a un crollo di circa il 27% non ha di certo destabilizzato i colossi della finanza mondiale; al contrario, ha assestato un colpo significativo ai ‘piccoli’ azionisti. E inoltre: Sintonia, che controlla Atlantia, ha un fatturato che supera i 4 miliardi di euro, utili per oltre 1 miliardo e, contrariamente a quanto si è detto da solenni pulpiti, paga le tasse in Italia. Dunque, in parole povere e grossolane, ma efficaci: lavoro, gettito fiscale e sviluppo nel nostro paese.

schermata-2018-09-01-alle-12-35-18“E i morti del ponte Morandi?” potrebbe chiedere qualche incauto e frettoloso moralizzatore… I morti del ponte Morandi non hanno alcun legame con ciò di cui abbiamo parlato, checché se ne dica e per quanto si voglia mandare qualcuno al patibolo. Nel medioevo, in effetti, si faceva così: qualcuno doveva pagare e l’impiccagione avveniva sotto gli occhi delle folle a guisa d’esempio e – perché no? – d’intrattenimento ludico-spettacolare. Ci eravamo convinti, forse sbagliando, che certe pratiche fossero bell’e superate.

È naturale pensare che, in effetti, ci sia un equivoco imbarazzante, ma il popolo è costretto ad equivocare, soprattutto… è costretta ad equivocare la povera gente, che non può fare a meno di giudicare male determinate figure chiave della politica e dell’economia di un paese perché l’associazione tra il malessere personale e quello sociale è naturale e perché chi deve procurarsi ogni giorno il cosiddetto pezzo di pane non ha il tempo per valutare gli stati di cose. Tempo ed utilità determinano e governano la relazione tra ricchezza e povertà, forza e debolezza. Il ricco può vivere il presente come attesa, previsione o, addirittura, investimento, tanto da poter ponderare le scelte e gli stessi giudizi in funzione di ciò che accadrà domani. Il povero è incalzato dalla sopravvivenza, dalle scadenze; egli si può concedere, giocoforza, solo il godimento di ciò che gli è utile.

Se, talora, un operaio decide di recarsi con la famiglia in pizzeria – e la pizza, tutto sommato, non è utile –, sa di dovere racchiudere l’esperienza in una sera. Il giorno successivo, dovrà pensare a come fare la spesa, pagare le utenze et cetera. All’operaio non è concesso tempo, laddove il tempo sarebbe necessario alla gestione ed al soddisfacimento di tutti i bisogni. La sua vita è un continuo rinvio del desiderio, quindi anche un allontanamento dalla realtà, un equivoco socio-economico della speranza dentro cui è risucchiata ogni cosa. Eppure, senza tempo, non c’è sviluppo, non c’è scienza, non c’è produzione, non c’è economia.

Se la catena economica fosse limitata al soddisfacimento dei bisogni, il mercato crollerebbe di colpo. Dalla telefonia mobile al trading, dalle automobili alla moda, nulla resisterebbe. Che lo si voglia o no, il semplice compimento dell’utilità non è utile alla società. I beni superflui hanno un elevato potere seduttivo e attrattivo e condizionano fortemente qualsiasi essere umano. Il problema sta non tanto nel mettersi alla guida di una Bmw o di una Mercedes, quanto piuttosto nel mettersi alla guida di un’autovettura alla quale si cambia regolarmente il filtro dell’olio e per la quale si paga altrettanto regolarmente l’assicurazione.

schermata-2018-09-01-alle-13-17-41Vedersi sorpassare in autostrada da una berlina fiammante genera allora un po’ di malumore e qualche cattivo presagio, poiché si è costretti a far prevalere la coscienza. Ci vorrebbe un po’ di freddezza e un po’ di cinismo per condurre la battaglia della quotidianità, ma freddezza e cinismo non appartengono a chi non ha via d’uscita. Queste caratteristiche se le può permettere chi può scegliere non pressato dall’urgenza. L’identificazione tra il povero e ciò che gli serve, oggetto o bene, spinge il povero alla ricerca ossessiva della libertà, alla ribellione e, talvolta, anche alla violenza e all’assassinio.

È così che la condanna di un personaggio, un qualsivoglia Benetton, eccita vaste platee, che cominciano a scagliarsi inferocite contro il presunto trasgressore, perché la condanna priva di libertà chi è riuscito a sottrarsi al potere centrale, senza che ne scaturisca quasi mai una disamina completa del reato. La frustrazione per la perdita del proprio spazio e del proprio tempo, che ogni popolo accetta supinamente e più o meno legittimamente in un processo di statalizzazione, è comunque cocente. Far parte di una comunità vuol dire rinunciare alla libertà incondizionata del tempo e dell’azione, ma ciò risulta accettabile in presenza di forme di agio e benessere. Diversamente, s’inveisce per compensazione e per ignoranza di mezzi e fini.

Un cittadino normale è distante dall’autorità costituita, ma la distanza è ciò per cui egli riconosce l’autorità, la rispetta, ne teme l’intervento e, nello stesso tempo, nutre un’invidia latente e pronta ad esplodere. È così che ai margini di questa società qualcuno vede sempre complotti, qualcun altro sempre i misteri e tutti sono affamati di scandali e condanne, come se la condanna ponesse fine alle ingiustizie.

Resta comunque difficile per la più parte di noi accettare che un’economia di successo, senza oltraggio al ‘bene comune’, è impossibile.

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