Abolire la povertà? Bisogna rendere credibile il reddito di cittadinanza

scritto da il 17 Ottobre 2018

L’autore di questo post è Matteo Gallone, dottore in Scienze dell’Economia e della Gestione Aziendale, specializzando in Intermediari, Finanza Internazionale e Risk Management all’Università di Roma La Sapienza – 

I numeri per finanziare la «manovra del popolo» sono pesanti da mandar giù, soprattutto se consideriamo che la linea economica del governo giallo-verde sarà finanziata quasi del tutto in deficit. 
Qui ci limiteremo a stendere una riflessione circa la voce di spesa più cospicua riportata nella nota di aggiornamento al DEF: i dieci miliardi stanziati per il reddito di cittadinanza (RdC).

Per come è stato formulato nel Def, il RdC verrà promosso sotto forma di assegno atto ad innalzare le entrate dei beneficiari (individui disoccupati con un reddito inferiore alla soglia di povertà) con 780 euro mensili (aumentabili fino a 1300 euro, a seconda del carico familiare). Il recepimento è condizionato all’iscrizione da parte degli interessati ad un centro per l’impiego, dedicando 8 ore a settimana per servizi socialmente utili e all’accettazione di almeno una delle tre proposte lavorative che dovrebbero arrivare nell’arco di 24 mesi.

schermata-2018-10-16-alle-13-07-44Secondo Luigi di Maio, ministro del Lavoro, con la nuova legge di bilancio, in parallelo all’introduzione del sopradescritto reddito di cittadinanza, l’Italia riuscirà finalmente a “cancellare la povertà”. Il quesito a cui si vuole dare risposta è il seguente: siamo davvero in grado di abolire la povertà? Vediamo.

Utilizzando come fonte dati l’indagine condotta da Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane di marzo scorso, tenendo come riferimento una soglia di povertà molto bassa (il 40% del reddito mediano), sarebbero in povertà l’8.3% dei nuclei famigliari italiani. Approssimativamente si tratta di 2,1 milioni di famiglie. Stringendo il cerchio alle famiglie del tutto prive dei mezzi di sostentamento primari, il numero si riduce a circa 1,7 milioni di famiglie (5 milioni di individui). In sostanza, considerando le dovute scale di equivalenza relative al numero di componenti del nucleo familiare, per contrastare la povertà il governo ha bisogno di 11 miliardi all’anno.

In realtà, la questione è ben più complessa. Non si tratta solo di risorse da redistribuire. 
In primis, il RdC sarà indirizzato anche a famiglie che nella realtà dei fatti non sono povere. Entrando nel merito della questione, il lavoro pagato in nero risulta esser una componente fondamentale, alla quale si aggiungono errori ed omissioni tecnico-amministrative, attraverso cui sarà difficile risalire a chi ha pieno diritto a beneficiare di tale contributo.

In secundis, bisogna ricordare che la povertà è un fenomeno dinamico e progressivo. Mensilmente alcune famiglie cadono in povertà, mentre altre vi escono. Un sistema di trasferimenti reddituali, ammesso che venga congegnato alla perfezione, non riuscirebbe a tenere il passo con un fenomeno in così continua evoluzione.

Il terzo punto riguarda, invece, le soluzioni proposte dal governo al fine di porre alcuni vincoli per limitare eventuali abusi da parte di coloro che cercheranno di cumulare questo sussidio ad altre entrate, magari in nero. Le fonti governative hanno annunciato che il denaro stanziato non potrà essere risparmiato, né prelevato in contanti, ma solo e soltanto speso. Tuttavia, senza la possibilità di poter risparmiare, la determinata famiglia sarà costretta a dipendere nel tempo verso tale forma di sostegno. Di conseguenza, la volontà del governo di voler restringere l’utilizzo del sussidio verso beni che non siano di primaria necessità non fa altro che generare ulteriore confusione su cosa il governo ritenga effettivamente “immorale” o semplicemente voluttuario.

Impostando in tal modo la misura economica si andrebbe a trasformare l’assegno mensile di 780 Euro in una “buono per acquisti”. Siamo ben distanti dal mettere in atto una politica di creazione del lavoro. 
Alla base dell’attuale impostazione del RdC vi è uno sbilanciamento rilevante: la prestazione monetaria non è compensata da una serie di politiche mirate alla ricerca di impiego.

I centri per l’impiego, che dovrebbero esser il perno attorno al quale si snoda la manovra per “abbattere la povertà”, fanno i conti con una realtà difficile. Secondo una brillante indagine del Sole 24 Ore, nella rete dei 501 Cpi, la metà ha dotazioni informatiche insufficienti (il 72% nel Sud e nelle Isole) e per quanto riguarda l’organico dipendente vi è un problema quantitativo e qualitativo. 
Molti dei 7.934 dipendenti (contro i 98.739 addetti della Germania, i 74.080 del Regno Unito e i 54mila della Francia), per effetto del blocco del turn-over hanno un’età avanzata e una scarsa dimestichezza con il digitale.

Con i promotori del RdC che vogliono digitalizzare le procedure da un lato (si parla addirittura di blockchain) e le infrastrutture tecnologiche arretrate con un personale poco avvezzo alle tecniche informatiche dall’altro… il caos potrebbe esser alle porte.

Imparare dal passato, dirigendosi verso il futuro
Consentitemi di rievocare il passato. 
Dopo le assicurazioni sociali di Bismark del 1883, l’Inghilterra fece un passo avanti in materia. Con il famoso Piano Beveridge si volle garantire un reddito minimo sufficiente ad assicurare la sussistenza della famiglia di fronte ad eventi della vita nei quali veniva meno il guadagno o il reddito personale. L’intervento statale qui, a differenza della Germania, venne aperto all’uomo cittadino, non solo al lavoratore. Tuttavia, un punto focale del piano fu che la garanzia del reddito dovesse durare il meno possibile. Si volle costruire un meccanismo in grado di non legare il beneficiario ai sussidi per troppo tempo. Stato e beneficiario stringevano un patto cooperativo: il primo offriva la possibilità ad ognuno di condurre una vita decente, i secondi contribuivano economicamente al finanziamento. Nel far ciò lo Stato non doveva, però, soffocare aspirazioni, ambizioni e propositi del singolo individuo. Esso non doveva paralizzarsi perdendo lo spirito di iniziativa necessario ad andare oltre il minimo garantito dal sistema di welfare.

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L’organizzazione delle assicurazioni sociali deve essere trattata come parte di una comprensiva politica di progresso sociale e i beneficiari non devono avere l’impressione di ricevere un sussidio proveniente da una “borsa senza fondo”.

Il RdC dovrà contribuire a rilanciare il principio della responsabilità individuale all’interno del nostro Paese. Dovrà esser uno strumento di incoraggiamento volto a mantenere le persone in piena efficienza e capacità di lavoro, alimentando la volontà di voler ottenere un reddito superiore al sussidio percepito e di andare oltre i semplici bisogni materiali.

Rendere credibile il progetto 

Innanzitutto, prima di far partire il RdC bisognerebbe fare una marcata distinzione all’interno delle famiglie in povertà. Chi è in condizione di poter lavorare da un lato, chi non è in grado dall’altro. I primi (ossia i più numerosi) dovrebbero ricevere un aiuto condizionato alla loro rapida occupazione.

I secondi vanno dotati di una “pensione” dignitosa. In aggiunta a ciò devono esser rafforzati investimenti in amministrazione e controllo e preparate forme di mega-incentivi per le aziende. Proprio queste ultime, dovranno esser in condizione di poter assumere, in particolar modo nel Mezzogiorno, dove la densità di imprese è rarefatta e zona nella quale oltre il 20% della popolazione è attualmente esclusa dal mercato del lavoro.

Il governo ha deciso di non penalizzare chi non accetterà come prima offerta lavorativa un’occupazione al di fuori della propria città o regione. Se pensiamo che ultimamente si parla molto di globalizzazione ed interculturalità, tale criterio risulterebbe esser azzeccato per chi è impossibilitato a trasferirsi, ma non del tutto efficace per un giovane disoccupato che, attraverso il trasferimento, sarebbe indotto a trovare nuovi stimoli per velocizzare il processo di reinserimento. Quindi, con l’introduzione del criterio dell’area geografica, non solo dovranno esser garantiti ingenti investimenti verso i centri per l’impiego ma vi dovrà esser un consistente supporto alla promozione dello sviluppo economico/sociale di quelle regioni a ridotta intensità di lavoro.

Di pari passo, la riforma delle pensioni va ripensata. La legge Fornero ha delle falle. Tuttavia, l’idea che mandando in pensione 3-400 mila italiani con la revisione della suddetta legge verranno assunti altrettanti giovani ha un presupposto errato. Secondo il ministro Salvini, infatti, per ogni lavoratore che va in pensione, un giovane lavoratore lo sostituisce. Peccato che la teoria del lamp of labor, ossia della quantità di lavoro fissa, è stata considerata fallace già da tempo. Non necessariamente a una riduzione dei posti di lavoro degli impiegati più anziani corrisponde un aumento conseguente dei posti di lavoro per i giovani. Il numero dei lavoratori nell’economia non è fisso e, per giunta, le capacità e vocazioni di lavoratori “anziani” sono ben differenti rispetto a quelle di un lavoratore giovane (complementarità vs sostituibilità).

Sarebbe più opportuno facilitare il lavoro fino a 67 anni (e oltre per alcune categorie), incentivando la gamma di opportunità per i giovani, per mezzo di un’ulteriore riduzione della tassazione.
In aggiunta a ciò, un incremento degli investimenti in scuola, istruzione e sistemi di inclusione sarà necessario per far sì che nel lungo termine non si generino “nuovi poveri”, poiché è assodato che il livello di istruzione gioca un ruolo primario nella definizione delle prospettive occupazionali e di reddito.

Ciò non sarà comunque sufficiente. Ci troviamo in un’epoca di sviluppo tecnologico-industriale nella quale, analogamente a quanto successe alla fine del ‘700 in Inghilterra con l’introduzione della macchina a vapore, il mondo del lavoro sta subendo una rivoluzione. Secondo stime dell’OCSE le mansioni di circa un 10% di lavoratori italiani sono ad alto rischio di automatizzazione e le occupazioni di un 44% di impiegati subiranno un cambiamento radicale.

Il progresso tecnologico farà registrare, senza alcun dubbio, un incremento della produttività e del PIL, tuttavia, come successe 3 secoli fa, il rimpiazzo dei posti di lavoro perduti con delle nuove occupazioni non sarà istantaneo e richiederà anche più di una generazione. Per questo motivo, se il governo vuole contrastare il fenomeno della povertà, deve progressivamente passare da un’azione di assistenza ad un’azione di investimento individualizzato per accrescere il capitale umano. Una formazione continua garantita alle professioni soggette ad automatizzazione si rivelerà indispensabile.

In una visione di lungo termine, l’obiettivo deve esser quello di formare adeguatamente la nazione perché possa esser attiva e indipendente nel mercato. Lo Stato deve dare garanzie, il mercato ricchezza.

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