Fare impresa, che problema hanno le donne con l’accesso al credito?

scritto da il 31 Gennaio 2019

L’autrice di questo post è Azzurra Rinaldi, docente di economia politica all’Università di Roma Unitelma Sapienza – 

Come evidenziato nel Report OCSE “The Pursuit of Gender Equality 2017”, l’uguaglianza di genere non è solo un diritto umano fondamentale, ma è anche il punto nodale di una economia moderna e prospera che si ponga come obiettivo una crescita inclusiva, in cui le donne e gli uomini siano in grado di dare il proprio pieno contributo in casa, sul lavoro e nella vita pubblica.

Secondo il Global Gender Gap Index 2017, elaborato dal World Economic Forum, l’Italia si colloca in 82° posizione su 144 paesi in termini di uguaglianza di genere. Il tasso di disoccupazione non è ancora tornato ai livelli precedenti alla crisi e, in questa cornice, le donne italiane mostrano uno dei più bassi tassi di partecipazione tra tutti i paesi OCSE. Tra l’altro, il basso tasso di partecipazione aiuta le statistiche, perché le poche donne attive sul mercato del lavoro sono quelle più istruite e guadagnano di più rispetto a quelle che rimangono fuori del mercato del lavoro.

Il lavoro autonomo rimane per molte donne una delle ipotesi praticabili, soprattutto tra le giovani, ma purtroppo, in questo caso il pay gap diventa molto più evidente: le lavoratrici autonome guadagnano il 54% in meno rispetto ai colleghi maschi.

I dati mostrano una persistente carenza di base: al nostro paese è sempre mancata un’adeguata strategia finalizzata a favorire l’accesso delle donne al mercato del lavoro. Non si tratta solo di formazione, ma anche di prelievo fiscale e, soprattutto, di servizi. Fortunatamente, ad un contesto tanto desolante, le donne italiane (con la determinazione tipica del genere) stanno rispondendo facendo impresa.

Si tratta di un fenomeno relativamente recente, che ha iniziato a svilupparsi sul finire degli anni Ottanta, anche grazie alla legge 44/1986, che prevedeva condizioni particolarmente favorevoli alle imprese a conduzione femminile. Ma già qui emerge il primo problema, ovvero la riconciliazione del tempo di lavoro con il tempo per sé e per la propria famiglia. Nel modello mediterraneo di welfare state, la cura è tradizionalmente affidata alle donne (e, conseguentemente, ai servizi di cura non vengono spesso dedicate risorse adeguate). Per questo motivo, il 46% delle donne inattive, secondo una ricerca ISFOL, dichiara di aver lasciato il lavoro proprio a causa di problemi di conciliazione.

Una ricerca dell’INPS ha dimostrato che il 25% delle donne che hanno partorito nel 2009, 4 anni dopo non era rientrato al lavoro (sempre più spesso, si parla infatti di maternity gap, anziché di gender gap: lavoratori e lavoratrici sono sostanzialmente uguali finché le donne non partoriscono: la lì, la discesa libera).

Non stupisce, allora, la decisione di avviare una propria impresa come soluzione estrema alla apparente inconciliabilità dei propri desideri con la propria realizzazione (nonché, laddove si sia investito nella propria formazione, di rientrare sull’investimento). Certamente, non si tratta comunque di una scelta semplice. Numerosi gli ostacoli: dalla carenza di servizi di cura ai comportamenti discriminatori che le donne affrontano sui posti di lavoro. Tra questi, lo scarso grado di fiducia da parte delle istituzioni finanziarie rispetto all’accesso al credito.

Sotto il profilo del credito, certamente la crisi economico-finanziaria non ha aiutato: negli ultimi anni, sono cresciuti i fallimenti, si è ridotta la domanda interna e sono diminuite le possibilità di accedere al credito. È sorprendente, al contempo, osservare alcune dinamiche in controtendenza. Tra il 2010 ed il 2015, quindi negli anni immediatamente successivi alla crisi, in Italia sono nate 35.000 nuove imprese a conduzione femminile. Queste imprese stanno mostrando un tasso di crescita tre volte superiore rispetto alle imprese maschili e contribuiscono per i due terzi alla crescita della base imprenditoriale italiana.

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Ma arriviamo ai nodi problematici. In generale, quando devono fronteggiare le crisi, le imprese adottano una delle seguenti strategie: o cercano di mantenere l’efficienza attraverso decisioni di taglio dei costi (quindi, riduzione degli asset non strategici o dello staff); oppure, lanciano programmi di rinnovo organizzativo, tecnologico, introducono nuovi prodotti e processi, ricercano nuovi mercati o nuovi consumatori, effettuano investimenti per fare ingresso in nuovi settori produttivi. Della prima strategia si dice che è di tipo difensivo: si tratta di proteggere l’impresa e la sua capacità di sopravvivere nel breve periodo. La seconda strategia è di tipo offensivo: è una strategia che si pone prospettive di medio-lungo termine, guardando al momento in cui la crisi sarà già conclusa e che mette in campo azioni per far sì che si rafforzi la posizione competitiva di lungo termine dell’impresa.

Molte ricerche evidenziano che le donne, in media, mostrano una maggiore avversione al rischio rispetto agli uomini. Anche per questo motivo scelgono deliberatamente di mantenere obiettivi modesti, di non crescere nelle dimensioni aziendali, nel fatturato, nel volume della produzione. Si spaventano di fronte a situazioni incerte, sovrastimando la possibilità delle perdite e sottostimando le probabilità di vittoria. Una strategia offensiva, però, può essere perseguita più facilmente se l’impresa ha facilità di accesso al credito. Com’è ormai noto ai più, il nostro paese è stato colpito duramente dalla crisi economico-finanziaria del 2009 e, ormai sostanzialmente ultimo tra i paesi avanzati, stenta a riavviare una fase espansiva. Ciò si è tradotto in una stretta del credito (con un meccanismo, peraltro prociclico, ovvero che rafforza la crisi in corso, anziché contrastarla).

I dati del Doing Business Report 2017 (il rapporto sulla facilità di fare impresa elaborato annualmente dalla Wolrd Bank) posizionano il nostro paese al 101° posto su 190 in termini di accesso al credito, con un ulteriore arretramento di 4 posizioni rispetto al 2016. Il tema dell’accesso al credito e le sue problematicità è anche legato, per il nostro Paese, alle specificità del settore produttivo, caratterizzato da imprese a conduzione famigliare di medie, piccole e piccolissime dimensioni.

In questa cornice si inserisce il tema del credit gap. In linea con i trend osservati a livello mondiale, anche per le imprese femminili italiane l’accesso al credito rimane uno dei problemi fondamentali. Infatti, le imprese femminili non solo avviano l’attività imprenditoriale con un volume inferiore di capitale, ma anche nelle fasi più avanzate del ciclo di vita dell’impresa tendono ad usare prestiti di minore entità rispetto alle imprese maschili. Anche i dati dimostrano le difficoltà delle imprenditrici in ambito creditizio: secondo la ricerca sull’accesso al credito della BCE, le donne imprenditrici incontrano diverse restrizioni al credito.

Questi fattori spiegano perché le imprese femminili abbiano meno successo nel lungo periodo rispetto a quelle maschili: dimensioni minori, più bassi tassi di crescita, minori profitti. Nel nostro paese, il secondo Rapporto Nazionale sull’Imprenditoria Femminile curato da Unioncamere dimostra che, durante gli anni più difficili della recessione, le donne hanno richiesto meno prestiti rispetto alle controparti maschili: le donne continuano ad avere un atteggiamento di diffidenza e distacco nei confronti delle banche e in particolare modo del debito bancario. Come viene confermato anche dall’Osservatorio Nazionale sul Credito per le PMI, l’accesso al credito rappresenta uno dei fondamentali gender gap che caratterizzano l’Italia.

Questo non va bene. È noto che, soprattutto nelle prime fasi dell’attività imprenditoriale, la possibilità di accedere a finanziamenti adeguati gioca un ruolo fondamentale nelle stesse chances di sopravvivenza dell’impresa. Il funding gap potrebbe quindi essere il fattore che ostacola la crescita delle imprese femminili. Numerose ricerche mostrano che il genere del richiedente possa essere un elemento condizionante per le banche nella scelta dell’accettazione o del rifiuto della richiesta di finanziamento, così come del tasso di interesse applicato o delle garanzie personali richieste.

Già nel 1988, una ricerca sulla percezione da parte dei dipendenti di banca sulle caratteristiche tipiche degli imprenditori di successo evidenziava che si trattava di elementi più frequenti negli uomini che nelle donne. Anche una ricerca che stiamo attualmente conducendo presso l’Ateneo Unitelma Sapienza sulle imprenditrici italiane conferma alcuni aspetti ricorrenti (ma non per questo meno preoccupanti): le donne italiane che fanno impresa ritengono che per loro l’accesso al credito sia più difficile sia perché l’interlocutore è generalmente un uomo che perché hanno la sensazione che vengano considerate meno affidabili (per ipotesi di future maternità, ma anche per una diffidenza più complessiva).

Un dato interessante che emerge è che alcune di loro evidenziano una vera e propria differenza di linguaggio che attribuiscono al genere e che tende a penalizzarle nel caso in cui l’impiegato di banca che decide l’affidamento del credito sia un uomo. Vi è un ulteriore fattore che occorre evidenziare: alla domanda “secondo lei, qual è il motivo per cui le imprese femminili hanno più difficoltà ad ottenere il credito?”, una imprenditrice risponde “La poca dimestichezza che si ha a chiedere soldi in prestito”. È solo una delle risposte di questo tenore, ma dà conto di una problematica di fondo, che viene confermata poi da alcune risposte successive: oltre il 50% delle imprenditrici italiane ritiene di non avere una sufficiente alfabetizzazione finanziaria. Senza dubbio, questo si traduce in un ulteriore fattore di debolezza.

Ne ho voluto parlare con Anna Benini, presidente di Professional Women Network Roma e fondatrice della start up Liane. Dopo un’esperienza di venti anni in multinazionale e dopo aver sperimentato la maternità, al momento di trovarsi ad accudire anche i propri genitori fonda con una socia (anche lei mamma) Liane, che si occupa di accompagnamento assistito su prenotazione per bambini, anziani e disabili. “Abbiamo finanziato in autonomia l’avvio dell’impresa – dice Anna – e solo recentemente ci stiamo avvicinando al mondo dei finanziamenti. Accedere ai fondi è difficilissimo per le donne, soprattutto se la loro è una PMI”.

Paura della restituzione del credito e timore di non farcela solo alcuni dei fattori deterrenti. Ma anche gender gap: le donne faticano di più ad ottenere finanziamenti, a maggior ragione se sono portatrici di un tema sociale. Per superare l’impasse, l’esperienza di Anna dimostra che può essere utile modificare il proprio approccio, cercando di parlare il linguaggio degli investitori: “Io ho iniziato ad avere successo quando ho cambiato il pitch, ovvero ‘regalo tempo di qualità per accompagnare i vostri figli, sia che siate donne che se siate uomini’”. E fare rete, non solo con le altre donne, ma anche con gli uomini. In PWN gli uomini sono presenti e sono una grande ricchezza: se si vuole che il tema della gender equity anche nella realtà professionale ed imprenditoriale divenga centrale, gli uomini devono essere considerati come i primi alleati.

Ancora molta strada da percorrere, quindi, ma i segnali della vivacità imprenditoriale delle donne sono incontrovertibili. Sarebbe forse il momento che venisse loro dedicata la giusta attenzione.

Twitter @economistaxcaso