Reddito di cittadinanza: ibrido distorsivo tra lavoro e povertà

scritto da il 13 Febbraio 2019

Scrivendo su temi legati alla povertà, si rischia di attirare le polemiche di chi richiama continuamente la crisi dell’ultimo decennio, la pesante recessione ed i cinque milioni di poveri. Si tratta di critiche parziali però, dalle quali non bisogna farsi influenzare nelle analisi di una misura politica. Perché tenere conto dei cinque milioni di poveri ma non dei quasi quattro milioni di lavoratori irregolari stimati da Istat? O dei quasi cento miliardi di euro di sommerso derivanti da sottodichiarazione?

Lasciamo dunque da parte la retorica di cui siamo inondati (e magari anche la saga dei “Navigator“) per entrare nel merito. Come noto, è stato approvato il cosiddetto decretone relativo all’introduzione del Reddito di Cittadinanza (“RdC”) e della “Quota 100”. Il fatto che tali misure vengano introdotte con lo stesso decreto, fa sorgere spontanea una riflessione sull’intera politica economica dell’Esecutivo. Ed è una riflessione non positiva, perché racchiude un messaggio di fondo che, nonostante le rassicurazioni, sembra sottintendere una fuga dal lavoro, garantita dallo Stato.

Essendo impossibile trattare entrambi i temi in unico post, per il momento focalizziamoci sull’RdC, senza però affrontare la diatriba teorica (“è giusta o meno una misura universale di sostegno al reddito?”). Abbiamo a disposizione, infatti, un testo normativo già approvato (da convertire in Legge) sul quale poter ragionare.

Importi uguali, incentivi diversi

La prima riflessione riguarda gli importi per i beneficiari dell’RdC. Come ha evidenziato l’Istat nell’audizione al Senato tenuta da Roberto Monducci, la povertà assoluta è definita sulla base di una spesa minima che consente di acquistare una quantità di beni e servizi tali da poter condurre una vita accettabile. Ma la spesa necessaria varia sulla base di diversi parametri. Tra questi rientrano la composizione del nucleo familiare, la dimensione del comune di appartenenza e la residenza geografica. Eppure, l’RdC ignorerà i parametri relativi alle dimensioni dei Comuni ed alla ripartizione geografica. Tratterà infatti allo stesso modo l’abitante di un paesino meridionale e l’omologo che vive in una periferia di Milano. Anche il contributo per il pagamento del canone di locazione sarà uguale su tutto il territorio nazionale (280 euro).

Tutto ciò causa una evidente distorsione in termini di equità della misura. Ma può anche significare un forte disincentivo alla ricerca o al mantenimento del lavoro laddove il beneficio è superiore rispetto alle condizioni offerte dal mercato locale. Non a caso, nell’audizione dell’Inps, il Presidente Boeri ha affermato che «(…) Basti pensare che, secondo i dati Inps, quasi il 45% dei dipendenti privati nel Mezzogiorno ha redditi da lavoro netti inferiori a quelli garantiti dal RC a un individuo che dichiari di avere un reddito pari a zero (…)».

Il 45% è una quota altissima. In un’area geografica, tra l’altro, nella quale -nonostante una bassa spesa pubblica pro capite- la quota di spesa pubblica rapportata al Pil è elevatissima. E non servirà rischiare le sanzioni per aggirare le regole del decreto. Sarà sufficiente attendere, con diligenza, che arrivino le tre proposte congrue.

Quanto sopra è abbastanza intuitivo. Sperare invece che l’RdC inneschi un rialzo dei salari appare una mera utopia.

Patto per il lavoro e Patto per l’inclusione sociale

Ma entriamo più nel vivo del decreto. I richiedenti ammessi al beneficio potranno essere indirizzati su due strade diverse, ma con possibili incroci.

Chi avrà almeno uno di determinati requisiti* (“Requisiti”), firmerà un Patto per il lavoro. Tale beneficiario potrà rifiutare le prime due offerte di lavoro congrue (entro cento chilometri dalla residenza la prima, entro duecentocinquanta la seconda) nel primo anno. Successivamente, qualora abbia rifiutato le prime due offerte, dovrà accettare la prima utile nell’intero territorio italiano.

Sembra  pleonastico snocciolare dati, perché è ben nota la situazione occupazionale italiana. Soprattutto è nota quella di alcune aree del Paese che usufruiranno di maggiori tessere di cittadinanza. Si può ragionevolmente ipotizzare che, quantomeno per il primo anno di beneficio, sarà difficile formulare tre offerte congrue (o anche una).

Secondo i dati forniti nell’audizione INAPP, nel caso del beneficio Hartz IV (la misura tedesca più paragonabile all’RdC italiano), «la durata mediana del periodo necessario a trovare un lavoro (inclusi mini-job) è 2 anni e 7 mesi» (periodo 2007-2014). Pensate alla differenza tra i Centri per l’impiego tedeschi e quelli italiani. Anche in termini di spesa in percentuale al Pil, (0,36% contro 0,04%). Pensate solo cosa significhi, al giorno d’oggi, provare a tornare nel mercato del lavoro dopo due o tre anni. (però all’età giusta, si potrebbe poi sfociare in Quota 100, per far quadrare il cerchio…).

Chi invece non ha almeno uno dei Requisiti, dovrà essere convocato dai servizi per il contrasto della povertà dei Comuni. In quest’ultimi avverrà una valutazione preliminare, dopo la quale, qualora i bisogni del beneficiario riguardino la situazione lavorativa, la competenza passerà ai centri per l’impiego (con firma del Patto per il lavoro), mentre nei casi diversi verrà firmato un Patto per l’inclusione sociale. In quest’ultimo caso, la competenza è del tutto non chiara e sarà certamente fonte di incertezze «(…) con il coinvolgimento, oltre ai centri per l’impiego e ai servizi sociali, degli altri servizi territoriali di cui si rilevi in sede di valutazione preliminare la competenza».

In questa seconda situazione rientreranno -secondo le stime INAPP- ben il 50% dei beneficiari, 372 mila famiglie. Preoccupa la capacità dei Comuni di far fronte alle complesse esigenze di una così ampia platea di famiglie. La spesa degli enti per i servizi sociali è molto squilibrata lungo lo stivale. Come ha ricordato in audizione la Corte dei Conti, «(…) a fronte dei 116 euro medi pro capite si va dai 22 della Calabria ai 517 della provincia di Bolzano ed in un contesto in cui gli interventi più specificatamente destinati al contrasto della povertà corrispondono ad una spesa media pro capite di 14 euro che passa, però, ancora una volta, dai 3 euro nei Comuni della Calabria agli 83 nei comuni del Friuli».

catturainapp

In definitiva, questa seconda strada appare ancora più problematica rispetto alla prima. Non sorprende dunque la stima secondo la quale solo il 30% dei beneficiari sarebbe da ritenersi occupabile.

Privacy, incentivi alle imprese e assegno di ricollocazione

Per motivi di lunghezza, tralascerò la parte su sanzioni e controlli. Solo un accenno sulla lesione della privacy dei beneficiari spiati (come evidenziato dal Garante) e sull’attacco alla dignità di chi non potrà prelevare più di cento euro al mese e dovrà spendere tutto per evitare la decurtazione. Premesso che queste regole saranno facilmente aggirabili da chiunque vorrà farlo (“puoi fare la tua spesa con la card e mi dai il contante?”), non si comprende perché si debba impedire ad una persona indigente di risparmiare qualche centinaio di euro al mese in vista di un giorno di pioggia.

Veniamo agli ultimi due punti, degni di nota. L’articolo 8 del decreto riguarda gli incentivi per le imprese e per gli enti di formazione che assumono (o creino le condizioni per assumere) un beneficiario. L’assunzione a tempo indeterminato, aggiuntiva rispetto all’organico dell’impresa, consentirà al datore di godere di un esonero contributivo da cinque a diciotto mensilità (ad esempio, se assumo un beneficiario che ha ricevuto due assegni mensili di RdC, avrò diritto ad un importo di esonero pari sedici mensilità). Se l’assunzione avviene a seguito di un percorso formativo a cura di un ente accreditato, gli importi saranno suddivisi tra l’azienda e l’ente.

L’incentivo è economicamente forte ed è, tra l’altro, cumulabile (per adesso) con altri sgravi, come il bonus Sud o Giovani. Si tratta di un elemento positivo, in quanto spinge verso l’occupazione? La risposta intuitiva farebbe propendere verso il sì, ma occorre fare attenzione. Tali incentivi possono rappresentare semplicemente sussidi alle imprese piuttosto che veri incentivi per favorire l’occupazione dei beneficiari. Un effetto indiretto delle politiche attive è rappresentato dalle distorsioni causate alla selezione. È molto probabile, come sottolineato dal presidente Anpal, Del Conte, che un’impresa che intenda allargare il numero di addetti di un’unità, selezioni un giovane beneficiario e lo assuma solo attraverso i canali telematici previsti dalla misura, in modo da ottenere l’incentivo. Siamo in una situazione di deadweight loss. Gli incentivi si indirizzano verso chi non ne avrebbe bisogno per trovare un lavoro. Di contro, chi è meno occupabile resterà tagliato fuori.

Si potrebbe fare di meglio? Difficile, essendo l’RdC uno strumento ibrido tra la lotta alla povertà e le politiche attive del lavoro (suo peccato originale). La pretesa universalità della misura finirà per comportare risultati del tutto disparati ed imprevedibili ex ante.

Essere inattivi (poveri o ricchi) rappresenta una condizione molto diversa da quella di chi perde un lavoro o ha appena terminato gli studi (povero o ricco che sia). È l’impianto complessivo ad essere controverso. Il rischio che si corre è di polarizzare ulteriormente l’offerta di lavoro. Il tutto a vantaggio di comportamenti opportunistici da parte di imprese ed individui.

L’ultimo punto riguarda l’assegno di ricollocazione. Appare del tutto immotivato il passaggio della misura dalla platea dei percettori Naspi a quella dei beneficiari RdC. Secondo quanto riportato da Il Sole 24 Ore, la novità colpirebbe centomila disoccupati. L’esclusione della misura per i percettori Naspi è un errore grossolano e richiede una correzione. Altrimenti sarà penalizzato chi perde un lavoro ma non ha i requisiti reddituali e patrimoniali per accedere all’RdC.

Conclusioni  

Sussiste il rischio concreto di assuefazione assistenzialistica, inutile negarlo. Soprattutto in una fase in cui le prospettive di crescita sono tutt’altro che rosee. Si sarebbe dovuto partire dalle fondamenta del nostro welfare state, incrostato ed iper-burocratizzato. Invece si è deciso di poggiare il tetto su una casupola traballante, pur di non perdere consenso. La povertà e la disoccupazione rappresentano problemi diversi. Si poteva intervenire sul primo, riformando il Reddito di inclusione (REI). Sul secondo, si poteva lavorare sul canale politiche attive/passive già in corso d’opera.

Tutte le riforme sono poi migliorabili, ma l’RdC ha un’impostazione di fondo controversa. Quando si formano nuove burocrazie diventa poi complicato riuscire a smuoverle. Così come è complicato agire in peius su un assegno percepito dalle persone.

La speranza è che i cittadini non rispondano agli incentivi distorti creati dal legislatore, reagendo con orgoglio e dignità all’idea di uno Stato investito dell’onere di trovarci un’occupazione e di valutare le nostre spese.

Twitter @frabruno88

* (assenza di occupazione da non più di due anni; età inferiore a 26 anni; essere beneficiario di Naspi ovvero di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria o averne terminato la fruizione da non più di un anno; aver sottoscritto negli ultimi due anni un Patto di servizio in corso di validità presso i centri per l’impiego)