Impresa e consulenza, quale ponte fra le due rive del fiume?

scritto da il 25 Febbraio 2019

L’autore di questo post è Paolo Bricco, inviato del Sole 24 Ore

Perché capirsi è difficile – forse impossibile – ma parlarsi è indispensabile. Meno nel caso delle grandi imprese. Sempre nel caso delle piccole imprese. Nella rappresentazione – divertente e animata, maliziosa e a tratti tesa – del conflitto fra imprenditori e consulenti offerta dall’Accademia dei Pugni di Econopoly, l’immagine restituita dal confronto tenutosi venerdì pomeriggio al Sole 24 Ore è quella della frammentazione – al limite della atomizzazione – della realtà italiana. Una frammentazione che, dunque, complica e rende strutturalmente accidentato il dialogo fra le due parti.

Esiste, nello specifico italiano, una sostanziale difficoltà a fissare una norma, a definire uno standard, a stimare una media. Questo vale ad ogni livello: nella qualità del capitale umano, nella offerta della pubblica amministrazione, nel livello dei servizi, nella produttività delle imprese.

La prevalenza del particolare sul generale e la difficoltà a razionalizzare la nostra realtà si sono ben percepite all’Accademia dei Pugni. Quale impresa? Quale consulenza? E quale ponte fra le due rive del fiume? Il problema è proprio questo: l’inesistenza di una impresa, l’inesistenza di una consulenza, l’impossibilità di un unico ponte, ma la necessità – ogni volta – di ricominciare daccapo con mal di testa concettuali, mal di pancia operativi, diseconomie.

Punto primo: le piccole imprese – appena sopra la soglia delle officine artigiane – sono cosa diversa rispetto alle medie imprese fissate nel canone del Quarto Capitalismo dall’ufficio studi di Mediobanca. Ed entrambe le categorie – la piccola impresa e la media impresa ultra internazionalizzata – sono ancora una cosa differente rispetto alle grandi imprese. Le esigenze e le paure, i bisogni e gli obiettivi, gli stili e gli impulsi sono dunque completamente diversi.

Punto secondo: la consulenza è qualcosa di così variegato da sintetizzare – in una parola sola – attività diversissime. Fornire personale specializzato in informatica è tutta un’altra cosa rispetto ad elaborare strategie o, nella versione più noir del talvolta scabroso rapporto con l’imprenditore o il manager che ti ha affidato l’incarico, formalizzare e vidimare scelte – magari traumatiche – già prese da quest’ultimo.

Il nodo è il primo punto, non è il secondo punto. La segmentazione dell’offerta corrisponde allo standard internazionale. Il body rental, l’organizzazione della fabbrica, la finanza di impresa, la strategia di medio e lungo periodo e il gioco delle parti di suggerire decisioni già prese da altri sono attività che esistono in tutto il mondo, secondo la normale fisiologia molteplicità della offerta che soddisfa la molteplicità della domanda.

Il punto italiano è, invece, il profilo ambiguo e sfuggente del nostro sistema industriale. Un sistema industriale basato prima di tutto sulla polverizzazione. Questa polverizzazione rende tecnicamente poco astraibile il modello della piccola impresa italiana. La critica rivolta dagli imprenditori ai consulenti, secondo la quale questi ultimi vanno poco in fabbrica, trae origine proprio da questo punto: i consulenti non possono costruire, nel caso delle piccole imprese, offerte preordinate, basate su un sapere che è tecnicamente impossibile da costruire secondo “ricette” già definite.

Dunque, il consulente che va in azienda a proporre una formula deve ogni volta andare in mezzo agli operai e in mezzo ai tecnici – in caso di un problema “industriale” – e negli uffici a parlare con gli impiegati e i dirigenti, che di solito corrispondono con i proprietari. Il punto, che rappresenta l’enfatizzazione circolare di questa situazione, è che non soltanto ogni piccolo imprenditore ha esigenze diverse dagli altri. Ma che spesso si trova a misurarsi con una condizione di profonda criticità, soprattutto adesso che nel 2008 è iniziata la Grande Crisi, che rende molto complicato – perfino a sé medesimo – capire il suo reale bisogno.

Perfino una declinazione accettabile di uno standard per i grandi complessi industriali verso la piccola impresa – come la trasposizione del metodo Toyota nella lean production – deve poi confrontarsi con la vera domanda: quale è il deficit reale di una piccola impresa, di questa piccola impresa e non di altre. Perché se cambiare il ciclo produttivo può essere utile, magari il problema è nel capitale umano o è nel livello tecnologico delle linee. E, questo, è tanto più difficile da cogliere in una piccola impresa con poche teste, poche risorse e pochi occhi: tutto ciò fa salire tantissimo il profilo di rischio della scelta operata dall’imprenditore con l’ausilio del consulente, che spesso diventa una pistola con un proiettile solo.

Twitter @PaoloBricco