Il reddito di cittadinanza, i salari troppo bassi e la mossa del Gattopardo

scritto da il 02 Marzo 2019

L’autore di questo post è Massimo Famularo, investment manager esperto in crediti in sofferenza (Npl), già intervenuto nel dibattito sul reddito di cittadinanza con questo post

Caro Gabriele Guzzi, se il tuo intento non era difendere tecnicamente il reddito di cittadinanza, almeno sul piano comunicativo, sembra che tu abbia ottenuto questo effetto, se consideriamo che il Blog delle Stelle ha ripreso il tuo ultimo post. Visto che c’è stato e ricorre qualche cortocircuito comunicativo (scrivi che non vuoi difendere il provvedimento, poi lo difendi e concludi entrambi i pezzi dicendo che è un passo nella direzione giusta etc), proverei ad argomentare nel modo più diretto possibile partendo da quello che scrivi: “Il mio obiettivo era cioè quello di evidenziare quanto la maggioranza dei critici, per utilizzare una metafora evangelica, vogliano incentrare l’intero dibattito culturale del paese sulla “pagliuzza tecnica” del reddito di cittadinanza, ignorando volontariamente “la trave” delle ingiustizie e degli squilibri del sistema produttivo occidentale”.

Se guardiamo all’ultimo Employment Outlook OECD del 2018 notiamo qualcosa di interessante: il reddito orario lordo da lavoro in dollari USA aggiustato per il livello di disuguaglianza in Italia è di 19.1 dollari contro una media OCSE di 16.8. Quindi, mentre impazzano le discussioni su quanto siano bassi i salari italiani, su come sia necessario intervenire per renderli più dignitosi, guardando ai dati emerge come la realtà sia più complessa di quanto le semplificazioni ideologiche non vorrebbero. Non è l’entità dei salari il male peggiore che affligge il nostro mercato del lavoro, che invece soffre molto di più per quanto riguarda l’insicurezza e l’inclusività.

A partire dall’analisi comparativa effettuata dall’OCSE potremmo avviare una discussione interessante su come il reddito di cittadinanza si rapporti ai problemi reali del nostro paese, ma credo sia opportuno fare un passo indietro sotto il profilo del metodo: se non concordiamo una modalità condivisa di discussione, si finisce per fraintendersi o, peggio, scivolare nella palude confusa dove tutte le opinioni si equivalgono e i fatti non contano e immagino che nessuno voglia questo.

Propongo tre semplici regole d’ingaggio:

1- Tesi chiaramente specificate e argomenti concreti a supporto delle tesi

2- Chiara distinzione tra modelli teorici generali e applicazioni pratiche

3- Non confondiamo il sostegno a ideologie politiche con discussioni di carattere economico

Non è intellettualmente onesto cominciare due post dicendo di non voler difendere il reddito di cittadinanza e poi scrivere difese del provvedimento che diventano bandiere dei suoi sostenitori che vengono riprese anche dal blog del Movimento 5 stelle: in questo modo la discussione critica di un provvedimento, che dovrebbe essere quello che interessa ai lettori, passa in secondo piano e si finisce per fare pubblicità involontaria alla linea di governo.

Correttezza vuole che si distinguano le discussioni di merito sul provvedimento, dalle professioni di fede ideologica poiché la confusione tra questi due aspetti alimenta il populismo: in concreto hai scelto di proposito due critiche minoritarie al provvedimento, hai asserito di confutarle e poi attraverso “ben altri argomenti” hai concluso con un giudizio positivo più dettato dalle preferenze politiche che da argomenti fattuali.

Quanto alla distinzione tra teorie generali e casi concreti, un conto è parlare in astratto di uno stato buon padre di famiglia che può intervenire per ridurre le ingiustizie del sistema economico (qualunque cosa si intenda con questo) e magari effettuare utili investimenti che portano crescita economica, un altro è guardare a cosa è avvenuto e ancora avviene in Italia. Le statistiche sul numero dei dipendenti pubblici che riporti, sarebbero un argomento probante se tutti gli stati avessero livelli analoghi o paragonabili di efficienza. Se osserviamo la classifica del World Economic Forum, l’Italia, che pure si colloca al 43° posto su 137 paesi per indicatore di competitività generale è 135ma per funzionamento del settore pubblico, 126ma per efficienza della spesa pubblica.

Posso comprendere che sia popolare assecondare un generale desiderio di protezione e di maggiore intervento statale e che questo alimenti la creazione di nemici immaginari come il neoliberismo, meccanismo ben illustrato dall’ultimo saggio di Alberto Mingardi, tuttavia l’osservazione dei dati e, a dire il vero anche l’esperienza aneddotica di chiunque viva in Italia, ci racconta una storia differente.

Lo Stato italiano funziona male e costa molto, la spesa pubblica negli ultimi 40 anni è stata elevata e improduttiva, dal momento che oggi il nostro Paese ha un debito molto elevato e una crescita economica stagnante.

Sostenere come fai tu che il reddito di cittadinanza sia un passo nella direzione giusta mi sembra irrealistico e contrario a ogni evidenza disponibile: si tratta di una nuova forma di spesa pubblica in deficit, con aumento dei dipendenti pubblici (navigator o come si chiamano), che distribuisce sussidi per chi dichiara di cercare lavoro, in un paese dove il lavoro non c’è e dove mancano le competenze per svolgere i lavori che ci sono.

Per riportare la discussione entro termini più obiettivi, proseguirò argomentando secondo le regole indicate in precedenza.

Tesi: Il reddito di cittadinanza è una misura ingiusta, disfunzionale, dannosa e non adatta a raggiungere gli scopi dichiarati da chi la propone: per semplificare , ancora una volta i politici preferiscono dare pesci alle persone (in cambio di voti) invece di fare in modo che imparino a pescare.

Argomenti:

1. Ingiusta perché dà lo stesso sussidio ad aree geografiche con potere d’acquisto e soglie di povertà differenti

2. Disfunzionale perché si propone reiterare meccanismi di intervento statale che in passato hanno fallito e che hanno scarse probabilità di funzionare perché non affrontano il problema di fondo, che risiede nella necessità di creare nuovi posti di lavoro e formare i lavoratori per meglio rispondere a quelli che esistono già.

a. Se il lavoro non c’è, al punto che molti smettono di cercarlo, perché i navigator dovrebbero ottenere risultati differenti rispetto al passato?
b. Indurre chi aveva smesso di cercare a dichiarare di farlo per ottenere un sussidio non è un espediente degno dell’azzeccagarbugli?
c. Se mancano le competenze per consentire alle persone di lavorare, non è meglio investire in formazione piuttosto che in nuovi compensi per dipendenti pubblici?

3. Dannosa perché alimenta il deficit pubblico e la crescita del debito nel tempo per finanziare spese correnti,

a. Si può discutere se in teoria sia opportuno o meno fare deficit: tutta la storia degli ultimi 40-50 anni dimostra che per l’Italia fare deficit è male, non porta né crescita né minore disuguaglianza e trasferisce sulle generazioni future oneri ingiusti
b. Per quanto possa essere auspicabile assistere i più bisognosi, farlo in deficit è un furto ai danni dei posteri, se non si ha il coraggio politico di finanziare la spesa sociale con maggiori tasse, allora l’intento è comprare consenso di breve termine, non migliorare le condizioni del paese

4. Non adatta a raggiungere gli scopi perché poterà benefici solo a una ridotta minoranza di persone, con caratteristiche geografiche e socioeconomiche ben circoscritte

a. Se voglio ridurre la povertà non condiziono il provvedimento alla ricerca del lavoro, perché magari alcuni poveri non sono in condizioni di cercarlo (ad esempio per problemi di salute)
b. Se voglio indurre le persone a lavorare o a cercare un lavoro non gli affido un dipendente pubblico come balia, ma magari rimuovo gli ostacoli esistenti nei confronti della ricerca (es mancanza di competenze)
c. Se voglio un sistema più giusto intervengo in maniera sistemica, magari riducendo il carico fiscale su chi lavora e ha un basso reddito oppure rimuovendo rendite di posizione come quelle che invece il governo crea col regime agevolato delle partite iva o con la misura chiamata quota 100.

Questi sono una parte dei temi che andrebbero discussi attenendosi alle evidenze disponibili: se definisci l’Italia neoliberista, perché c’è stato il Jobs Act, stai facendo come i monaci del medioevo, che si dice mangiassero la carne al venerdì dopo aver pronunciato la formula “Ego te baptizo piscem”. Dal punto di vista formale sarà anche corretto, ma in concreto rappresenta una realtà distorta. Allo stesso modo, dopo che 40 o 50 anni di intervento statale ci hanno portato a una società dal quale i giovani più capaci e le imprese più innovative scappano, dove rendite corporative feudali premiano pochi privilegianti, mentre la maggioranza del paesi diventa sempre più povera, argomentare che la soluzione ai problemi sia ampliare il ruolo dello stato ricorda il celebre sillogismo goliardico in base al quale “l’alice salata fa bere e ribere, bere e ribere estingue la sete ergo l’alice salata estingue la sete.”

Se esistesse un sovrano illuminato, dotato di perfetta e completa informazione, di intenzioni benevole nei confronti della popolazione e della capacità di realizzare il massimo benessere per tutti, avrebbe forse senso affidargli la gestione dello stato e auspicare un maggiore ruolo di quest’ultimo nell’economia.

Quello che però esiste nella realtà sono istituzioni democratiche imperfette, popolate da individui umanamente interessati più al tornaconto personale che non al benessere collettivo. In Italia dal secondo dopoguerra ai giorni nostri una quota variabile tra metà e due terzi dell’economia è stata a vario titolo controllata o influenzata dallo stato e questo ha prodotto gli esiti che conosciamo in termini di diseguaglianza, crescita economica e benessere collettivo. Auspicare come politica di cambiamento un ruolo maggiore dello stato equivale a riproporre il celebre motto del Gattopardo: “Tutto deve cambiare, affinché nulla cambi”.

Twitter @MassimoFamularo