Cambio lavoro dunque sono. Ma il sistema è pronto a gestire il futuro?

scritto da il 15 Marzo 2019

L’autore del post è Giancarlo Scotti, co-founder di Propensione.it, già partner di Lazard & Co. e amministratore delegato di Lazard Italia, poi amministratore delegato di Generali RE –

Il mondo del lavoro è già cambiato e continuerà a farlo nel prossimo futuro.
Lo scenario internazionale è profondamente evoluto, con la globalizzazione che è entrata in una nuova fase grazie alle tecnologie digitali e che impatterà sempre di più sul concetto di lavoro, almeno per come lo abbiamo concepito fino a oggi.

Vero è che l’introduzione delle nuove tecnologie ha comportato e comporterà la sostituzione di alcune professioni e attività più standardizzate e ripetitive (secondo il McKinsey Global Institute il 60% delle professioni ha almeno il 30% delle attività che sono automatizzabili) ma è anche vero che la digital transformation porterà nuovi lavori e nuove opportunità di occupazione. Tanto che si stima che dal 2000 a oggi siano stati creati in Europa oltre 11 milioni di nuovi posti di lavoro grazie a questi cambiamenti. E per nuovi si intende lavori che prima non esistevano (vedi ad esempio digital marketing, cloud architecture e big data analysis).

Nel libro “Il futuro del Lavoro”, realizzato da Assolombarda in collaborazione con Adapt, è stato evidenziato come la durata media effettiva dei contratti di lavoro a tempo indeterminato sia in calo; si evidenzia infatti che oltre la metà termina dopo due anni. Questo fa pensare che la discontinuità lavorativa sia ormai una caratteristica fisiologica.

È interessante mettere in relazione questi dati con quelli dell’ultima rilevazione Istat, la quale evidenzia come siano cresciuti il lavoro dipendente a termine e quello autonomo, mentre sia diminuito quello a tempo indeterminato. E’ evidente come ci sia la necessità di rapporti di lavoro più dinamici, che non basino il loro valore sulla durata temporale, quanto su competenze e autonomia.

In questa fase di transizione, si sottolinea come sempre più spesso, soprattutto per i Millennials, la decisione di cambiare lavoro sia autonoma e personale e legata a diversi fattori, spesso non meramente economici. Posso citare una ricerca fatta da Deloitte in 36 paesi, nella quale il 43% dei Millennials intervistati ha dichiarato di voler cambiare lavoro entro due anni, e meno del 70% ha dichiarato di voler rimanere nella stessa azienda per altri cinque anni.

deloitte_millennialsFonte: Deloitte Millennial Survey 2018

Sempre secondo Deloitte, oltre al fattore economico a influenzare la scelta dei Millennials a cambiare lavoro troviamo anche anche la facilità di connessioni offerta dai network professionali e le esigenze di intraprendere nuove sfide.

L’altra faccia della medaglia è che sembra difficile valutare l’impatto di politiche volte a favorire la permanenza dei Millennials in azienda, quali benefit, luoghi di lavoro inclusivi, formazione, flessibilità in primis, ma anche “lifelong employability”, concetto attraverso il quale alcune aziende aiutano i propri dipendenti ad adattarsi a un’economia che evolve. Questa predisposizione al cambiamento lavorativo è talmente diffusa che è stato coniato un termine per definire chi cambia frequentemente lavoro entro un paio d’anni dall’assunzione: “job hopping”, per simboleggiare il “salto” da un’azienda all’altra.

Negli Stati Uniti, in presenza di un mercato del lavoro molto più flessibile e mobile rispetto a quello europeo, il “job hopping” sembra essere ormai la normalità; secondo gli ultimi dati del Bureau of Labor Statistics i giovani tra i 18 e i 28 anni hanno già cambiato una media di 7 datori di lavoro, mentre sono stati 12 i cambi fatti dai Baby Boomers, ma nel triplo del tempo (fino ai 50 anni).

C’è da chiedersi quali potranno essere gli impatti di questo cambiamento, non solo sul mondo del lavoro, ma anche e soprattutto sul sistema sociale. Per far convivere la flessibilità e discontinuità lavorativa con una stabilità reddituale e un benessere personale, è necessario fare evolvere il concetto di welfare e portarlo al concetto di well-being, nel quale la previdenza integrativa può svolgere un ruolo fondamentale.

In questo contesto c’è un’altra importante variabile che va considerata: l’innalzamento dell’aspettativa di vita, che negli ultimi 30 anni in Italia è cresciuta in media di circa 7 anni, passando dai 76 anni del 1998 agli 83 del 2018.

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Da questo punto di vista, è fondamentale riorganizzare la propria concezione di esistenza, pensando al proprio benessere e ai propri interessi proiettandosi non solo nel presente, ma spostando la propria attenzione anche allo stile di vita desiderato in futuro.

Simulazioni del Fondo Monetario Internazionale mostrano come, in economie avanzate, i nati tra il 1990 e il 2009 dovranno lavorare circa 5 anni in più e risparmiare oltre il 6% del proprio reddito per colmare il gap pensionistico rispetto a chi smette di lavorare oggi.

Diventa quindi cruciale gettare le basi per un sistema in cui ciò che è già stato fatto a livello di welfare pubblico venga integrato da strumenti in grado di sostenere le fisiologiche transizioni occupazionali e l’allungamento progressivo dell’aspettativa di vita, ovvero un sistema in cui il primo ed il secondo pilastro (pubblico e privato) vengano percepiti come strumenti sinergici dai giovani lavoratori.

Per cavalcare questa transizione senza subirla è importante fare delle scelte lungimiranti scegliendo gli strumenti giusti per tutelare in prima persona il proprio benessere futuro.