Retail Apocalypse all’italiana? Ecco cosa accadrà ai centri commerciali

scritto da il 27 Aprile 2019

Apocalisse del Retail in Italia ne abbiamo?

La risposta semplice sarebbe sì, tuttavia c’è da fare una serie di importanti distinguo rispetto all’equivalente crisi americana. C’è una crisi tutta in evoluzione in Italia (potremmo dire in incipit) che avrà delle importanti ricadute nei prossimi anni. Prima di tutto un po’ di definizioni. Con il termine retail definisco la vendita di servizi e prodotti (quindi dal negozio di telefonia all’ortofrutta) fatti al singolo consumatore. Nel mondo retail che discuterò di seguito, quindi, includo tutte le realtà della grande distribuzione organizzata (GDO), spesso inglobata (fisicamente parlando) in centri commerciali, a cui si aggiungono gli outlet di moda, le singole catene di negozi/brand (moda e lusso) e i singoli negozianti indipendenti (di solito associati a Confcommercio, per esempio). Ammetto che è un gruppo molto eterogeneo ma, ognuno di loro, affronta la crisi del retail con mezzi, soluzioni e approcci differenti (e non è detto che affrontarla sia sinonimo di vincerla). In questa analisi, tuttavia, considero importante focalizzarmi sul centro commerciale che, per sua natura, può essere rappresentativo dell’intero scenario di consumo al dettaglio e relative crisi (oltre ad essere un singolo grande datore di lavoro per migliaia di persone). Scomponiamo il tema in fattori esogeni (internazionali e nazionali) ed endogeni (crisi di un sistema socioeconomico e industriale del retail).

Foto tratta dal libro Black Friday – The Collapse of the American Shopping Mall, di Seph Lawless

Foto tratta dal libro Black Friday – The Collapse of the American Shopping Mall, di Seph Lawless

Fattori esogeni. Lo scenario internazionale è stato ben tratteggiato qualche giorno fa da Christine Lagarde che, sempre elegantissima, ha detto, in parole povere, che “non siamo in uno stato di crisi dell’economia ma…”, e aggiungo io, “il periodo delle vacche grasse ce lo siamo lasciati alle spalle”.

La conferma dello scenario di crisi del retail (americano) arriva anche da Goldman Sachs e Canyon partner (uno dei più grandi hedge-fund americani che operano sul retail).  Se vogliamo mettere un carico da 90 abbiamo anche vari economisti che identificano la data della prossima crisi economica (non solo dei retail ma dell’intera società mondiale) tra il 2020 e il 2021. A questo si aggiunga che avremo le elezioni americane (non è detto che Trump rivinca, quindi rischiamo un 6 mesi di “trono vacante”), la crisi cinese (i cinesi non comprano più iPhone, ma se per questo non comprano più molte cose) e la stagnazione dell’Europa.

Vediamo ora lo scenario italiano, prima di tutto la situazione socio economica (che, inutile dirlo, impatta anche sui consumi). Nell’estate 2018 Istat fotografa uno scenario italiano tragico. Oltre 5 milioni di individui in stato di povertà. Ci sarebbe da riflettere che, se lo stato di povertà conclamata è dato, non si discute mai abbastanza dello stato di “semi povertà”: chi arriva a fine mese a pelo (temo più di 5 milioni ma non ho dati per supportare questo, solo intuito, concedetemelo). Temo che questa fetta della popolazione sia quantitativamente maggiore dei “poveri”. In questo caso una analisi pubblicata pochi giorni fa sulle pagine di Econopoly aiuta a inquadrare meglio lo scenario (ben poco allegro). Questo stato di “ricchezza (non faccio ironia)” di una parte della popolazione (circa 1/10) ovviamente influisce anche sulle spese. Sempre da Istat ci arrivano alcuni grafici piuttosto chiari.
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La fiducia dei consumatori rappresenta, per semplificare, la percezione che i consumatori hanno del loro prossimo futuro. Per farla semplice se io (consumatore) ritengo che in futuro perderò il lavoro sarò pessimista. Se ritengo che non avrò un aumento di stipendio sarò moderato. Se ritengo che migliorerò il mio status di entrate sarò ottimista. L’indice sopra mappato da ISTAT rende l’idea su un clima di accresciuto pessimismo.foto-2

All’accresciuto pessimismo si può collegare la seconda analisi che mappa una stagnazione/decrescita degli occupati (in cui, in vero, si dovrebbe discutere il tipo di occupazione: tempo determinato o indeterminato) e l’aumento netto rispetto ai mesi prima degli inoccupati. La cosa ovviamente non richiede un genio per comprendere che gli inoccupati non son ottimi consumatori.

“Negli ultimi 10 anni il potere di acquisto è cambiato” precisa Umberto Pardichief operating officer di Payglobe, società di Tas Group. “Il ticket medio, pertanto, nel mondo retail ha avuto una progressiva riduzione. Hanno invece riscontrato un maggior successo tutti quei servizi che hanno visto una vera e propria trasformazione, determinata dai nuovi processi di acquisto, affidandosi agli innovativi metodi di pagamento, cito a titolo di esempio in ambito trasporti il Car Sharing, che ha comportato una nuova voce di spesa. Alla voce trasporti rientra anche la bigliettazione per trasporti pubblici, ecopass etc… ”Per quanto possa apparire politicamente corretto lasciare a casa l’auto e usare i mezzi pubblici c’è da riflettere che un calo della domanda di auto è, anche, imputabile alla capacità di acquisto degli italiani, decresciuto mediamente negli anni (comprare e mantenere un auto costa). La voce come gli ecopass semplicemente non esisteva 10 anni fa. Di fatto non una voce di spesa aumentata ma una semplice tassa. Lo stesso Ocse spiega che la classe media, in Italia, è schiacciata dai costi in aumento. Con questa visione in mente cominciamo a discutere di centri commerciali e retail apocalisse.

Fattori Endogeni

Se la “crisi” fuori esiste diviene necessario comprendere come i centri commerciali (il mondo retail in generale) la affrontano e quali sono i rischi connessi. “948 i centri commerciali attivi in Italia (rispetto ai 947 del 2017, con 10 chiusure e 9 aperture), cui vanno aggiunti 180 retail park (erano 172) e 30 outlet (erano 31)”, numeri dell’Osservatorio Confimprese-Reno presentata lo scorso 12 ottobre. Un totale di 1.158 strutture con 79 progetti entro il 2022, di cui 38 centri commerciali. “Nel tempo il retail è diventato autoreferenziale”, dice Gian Enrico Buso, partner di Reno, “ed è prevalsa un’omologazione dell’offerta a livello globale in nome del primato dei volumi. L’online è un fenomeno inesorabile, un’alternativa di consumo, anche se l’Italia sconta un ritardo rispetto alle economie anglosassoni”. Spiega Buso. Il tema dei servizi e l’ingaggio del tempo di “qualità” del cliente/utente è un tema comune a tutte le realtà che orbitano e compenetrano i centri commerciali.

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Tuttavia resta da comprendere se una food hall o una sala videogiochi (per quanto più avanzati) bastino per rilanciare la sorte dei centri commerciali. Osservando l’infografica sopra si nota come (dati febbraio 2019) tutte le principali voci dei negozi (la famosa “galleria”) sono in contrazione. Le due voci principali per importanza restano il food e l’abbigliamento. Il primo non può essere digitalizzato (nel senso che il suo acquisto on line è di fatto impossibile, se questo implica il consumo sul posto), mentre le altre voci di negozi possono essere facilmente digitalizzate e quindi richiedere spazi di vendita minori. Di fatto questo implica che un negozio, se diviene supporto alla vendita online dei suoi prodotti, può essere un ottimo sito per il drop shipping, ma (qui ovviamente sta a ogni Ceo di un gruppo retail) richiedere anche meno addetti alle vendite e meno superfici di vendita. Il che, sul medio lungo periodo, implica una riduzione degli spazi e una necessità vitale per il centro commerciale di ripensare i suoi spazi (insomma tirare su 4 pareti di cartongesso e trovare altri affittuari, il tutto ha un costo che influisce sulle rendite).

Il rischio che ogni centro commerciale affronta è quella che io chiamo la “sindrome da negozio chiuso”: la famiglia Rossi, il signor Mario, la signora Maria e i figli vanno al centro commerciale. Se anche solo un negozio appare chiuso, magari in mezzo alla galleria dello shopping, la signora Maria dirà al signor Mario “andiamo nell’altro centro che qui stanno chiudendo tutti e mi mette tristezza”. Se, come spesso si suggerisce, prima i centri commerciali si dovranno spostare sempre più sul lato esperienziale per invogliare il consumatore a soggiornare più a lungo, e si auspica a spendere, un consumatore triste o dispiaciuto per i “tanti negozi chiusi” non va bene. Spiega Umberto Pardi di PayGlobe: “I brand che affrontano le problematiche di riduzione di spazio sono in aumento, privilegiando i nuovi processi che favoriscono l’acquisto on-line ed eventualmente solo il ritiro in store. Se guardiamo in Europa, è interessante l’esperimento di un gigante del retail (tedesco) dove si è deciso di puntare molto sulla customer experience in store, valorizzando quindi il rapporto con il cliente ma riducendo al contempo lo spazio fisico dove avviene l’esperienza del consumatore”.

Uno scenario plausibile è che i centri commerciali devono, meglio dire dovrebbero, aggiornarsi ogni 3-4 anni. Magari utilizzando non solo il 6° senso (che più o meno significa “andiamo a occhio”) ma anche tutta la cornucopia di big data che si possono (si dovrebbero) acquisire grazie al traffico. Ma resta la domanda. Chi paga per gli aggiornamenti?foto-4Fonte originale grafici qui.  (I commenti/frecce sono stati aggiunti da Enrico Verga)

Il grafico qui sopra spiega chiaramente che le rendite dei centri commerciali (linea rossa) sono crollate da un massimo del 6.4% (circa) a 5% (circa). Cerchiamo di comprendere, tirando un po’ le somme, come sarà la retail apocalisse all’italiana. Stanti le premesse di una stagnazione dell’economia italiana nel 2019 (e facciamo anche 2020?) i grandi centri che hanno più risorse economiche, gallerie importanti, e nel tempo hanno scelto posizioni valide resteranno. Pur soffrendo e dovendo investire in aggiornamenti (o tagli di personale e relative sostituzioni di robot). I piccoli centri commerciali che sono in zone strategiche, diciamo comode, reggeranno, ma con fatica. Per gli altri si prospetta l’oblio? Forse oblio è una parola grossa ma la riduzione dei costi è un obbligo e, se vogliamo osservare le tendenze americane per ridurre le spese c’è poco da fare. Più robot, più automazione, più digitale, più big data, meno personale: Walmart ha appena detto che i nuovi robot che sostituiranno i dipendenti nei lavoratori ripetitivi renderanno i suoi impiegati più allegri…  Sperando che i clienti continuino a comprare “dal vivo”.

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