Pochi medici in Italia? Non è vero, ma un problema c’è

scritto da il 07 Maggio 2019

L’autore del post è Francesco Olivanti, classe 1993, di Ciampino (Roma). Laureato in Bocconi dopo la laurea triennale a Tor Vergata, per il think tank Tortuga – tramite il quale pubblica questo contributo – si occupa di formazione e istituzioni – 

Il dibattito sulle carriere sanitarie si è riaperto nell’autunno 2018, quando, con una sorprendente nota pubblicata dopo il Consiglio dei ministri del 15 ottobre, il Governo annunciava la “abolizione del numero chiuso nelle facoltà di medicina […] permettendo così a tutti di poter accedere agli studi”: un annuncio però subito ritirato. A rinfocolare la discussione è poi arrivata quota 100: secondo le stime del sindacato Anaao-Assomed “per il combinato disposto di quota 100 e gobba pensionistica (il picco di lavoratori in fase avanzata di carriera che nei prossimi anni corrisponderà a un picco di pensionamenti), in tre anni lasceranno il servizio sanitario nazionale 24mila medici”, che si aggiungerebbero a un deficit stimato di circa 10mila camici bianchi.

Proviamo ad approfondire la questione analizzando alcuni tratti del sistema sanitario italiano in un confronto con altri paesi europei.

C’è davvero una carenza di personale medico in Italia?

Osservando i dati aggregati per paese europeo (figura 1), nel complesso sembrerebbe non esserci una carenza di personale medico. L’Italia è a oggi (dati 2016) in linea con gli altri sistemi del continente: il numero di medici generalisti per 100mila abitanti (89,2) è inferiore a quello registrato in altri grandi paesi europei come Germania (97,8) e soprattutto Francia (152,9), ma rimane sensibilmente superiore a quello osservato in Regno Unito (76,4) e Spagna (74,7).

Discorso differente per quanto riguarda i medici specialisti – per cui l’Italia (306,1) risulta tra i paesi a più alta densità di professionisti in Europa, non lontano dalla Germania (320,9) – e soprattutto per i medici pediatri. Infatti, sebbene il numero di pediatri italiani sia già relativamente alto rispetto all’intera popolazione (circa 29 pediatri ogni 100mila abitanti, contro i 17 della Germania e i 12 della Francia), il rapporto diventa ancor più elevato se si considera la sola popolazione infantile (0-14 anni): con 213 pediatri ogni 100mila bambini, l’Italia è preceduta solo dalla Grecia.

Tuttavia, la prospettiva macroscopica non permette di cogliere alcune problematiche più profonde, legate all’anzianità della popolazione medica, alla sua distribuzione sul territorio, e alle tipologie di specializzazioni.

Figura 1 – numero di medici per 100mila individui, per tipo di specializzazione (2016)

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Fonte: Eurostat per un sottoinsieme dei paesi disponibili;

(*) Il rapporto relativi ai medici pediatri è calcolato sulla popolazione di età 0-14 anni.

L’età dei medici e l’impatto dei pensionamenti

La prima problematica riguarda l’età del personale. Secondo le stime effettuabili dai dati Eurostat, l’Italia risulta il paese con l’età media più alta, l’unico che supera i 50 anni d’età. Più bassi i valori osservati per Francia (48,4), Germania (45,6), Spagna (43,2), e soprattutto Regno Unito (34,0), il paese con la media più bassa in assoluto.

La stima segnala anche un aumento dell’età media negli ultimi anni: nel 2011 lo stesso valore si attestava per l’Italia poco sotto i 49 anni, e il primato spettava alla Francia; nel frattempo, però, mentre la maggior parte dei Paesi vedeva la propria media abbassarsi, l’Italia – come Spagna e Irlanda – figurava tra i pochi ma significativi casi di invecchiamento.

I dati relativi al Sistema Sanitario Nazionale forniti dal Ministero dell’economia, aggiornati al 2017 e maggiormente disaggregati per età, confermano questo scenario (figura 2).

Figura 2 – distribuzione del personale medico del Ssn per classe d’età

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Fonte: conto annuale del Tesoro (2017), Ministero dell’economia;

Tra il 2011 e il 2017 il Ssn ha perso più di 4mila unità e l’età media è passata da 51,0 a 52,9 anni. Ciò che più preoccupa, tuttavia, è l’avvicinamento alla pensione del gruppo più folto di professionisti, i circa 25mila medici che nel 2019 hanno tra i 62 e i 66 anni, nonché gli ulteriori 22mila che nel 2019 hanno tra i 57 e i 61 anni.

Quota 100 sta accelerando il congedo di questa parte di lavoratori: di fronte a pensionamenti così numerosi nel breve-medio periodo, difficilmente sarà possibile sostenere il fabbisogno di personale senza interventi straordinari sui flussi in ingresso.

Specializzazioni e imbuto formativo

Alle difficoltà causate dall’impatto dei pensionamenti va aggiunta infatti l’insufficiente compensazione causata dal cosiddetto imbuto formativo, il grande ingorgo formatosi all’ingresso della carriera medica in ragione del basso numero di borse di specializzazione disponibili.

Secondo i dati del Ministero dell’istruzione, nell’anno accademico 2017/18 i posti disponibili nelle scuole di specializzazione erano 7.164, a copertura di meno dell’80% dei 9.252 neo-laureati in medicina nell’anno precedente (a questo link una breve spiegazione di come funziona la formazione dei medici). Considerando anche gli attuali specializzandi, ciò comporterà un influsso annuale di circa 7mila nuovi medici per i prossimi 3-5 anni. L’entità del saldo negativo dipenderà dall’impatto finale di quota 100, ma gli entranti potrebbero coprire solo circa il 30% dei posti vacanti.

Tutto ciò a fronte di migliaia di studenti formati ma sulla carta inutilizzabili. Immaginando di incrementare il numero delle borse a 8mila – come annunciato dal ministro Bussetti a inizio aprile – e ipotizzando una crescita del numero di laureati in medicina oltre i 10mila laureati all’anno, Anaao-Assomed stima stima che dal 2020/21 lo stock di perdenti dei concorsi di specializzazione si attesterà ogni anno attorno alle 19mila unità.

Asimmetrie

Se il ricambio generazionale pone un problema in termini aggregati, ma lo fa in un orizzonte futuro, nel breve periodo ulteriori difficoltà emergeranno a causa di distorsioni sul piano della distribuzione territoriale e delle competenze.

Innanzitutto, come mostra la figura 3, si osservano forti divari fra regioni nella dotazione di medici. Mentre Veneto e Trentino-Alto Adige contano meno di 350 medici ogni 100mila abitanti, Lazio e Sardegna superano sensibilmente i 450. Non a caso è proprio il Veneto la regione più attiva nel denunciare la carenza di medici sul proprio territorio, a cui si vorrebbe metter rimedio ricorrendo a lavoratori già in pensione o provenienti dall’estero.

Figura 3 – medici per 100mila individui, per regione italiana (2017)

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Fonte: elaborazione su dati Eurostat;

Analogamente, se l’Italia sembra abbondare di specialisti presi nel loro complesso, determinate categorie risentono di gravi carenze. Sempre il sindacato Anaao-Assomed stima per il 2025 una mancanza di più di 4000 medici d’emergenza-urgenza, più di 3000 pediatri, e circa 1000 chirurghi generali, anestesisti e rianimatori, e medici di medicina interna, rispettivamente.

In un recente censimento, l’Associazione liberi specializzandi (Als) sottolinea che le preferenze dei neolaureati si orientano sempre più verso alcuni percorsi. Mentre specialità come chirurgia toracica o anestesia e rianimazione registrano una bassa attrattività (tra il 15 e il 40% delle borse disponibili), discipline come chirurgia plastica o pediatria – che offrono sbocchi redditizi anche nel privato – saturano regolarmente i posti a disposizione.

Da notare inoltre che le carenze non sono limitate alle professioni mediche ma anche a quelle sanitarie: l’Italia, come la Spagna, ha infatti un numero di infermieri notevolmente inferiore alla media Ocse.

Conclusioni: le possibili contromisure

Sebbene l’Italia non sia carente di personale e competenze nel settore medico, il Paese sta pagando le conseguenze della cattiva programmazione, di politiche previdenziali e del lavoro contraddittorie, e delle inefficienze nell’uso delle risorse.

Nel breve periodo l’Italia ha alcune opzioni per soddisfare il fabbisogno garantendo la qualità dei servizi: innanzitutto, ricorrere a percorsi alternativi a quelli universitari, con una formazione sul campo tramite le aziende sanitarie e ospedaliere (come propone il sindacato Fismu). Inoltre si potrebbe incentivare il ri-orientamento degli specialisti verso le figure maggiormente carenti e, da ultimo, agevolare il ricorso a competenze provenienti dall’estero, magari incentivando il ritorno di medici formati in Italia.

Come mostra la tabella 1, infatti, diversamente da altri paesi come Francia, Germania e soprattutto Regno Unito, l’Italia tradizionalmente non ha fatto ricorso a lavoratori formati all’estero, e ha invece spesso esportato professionisti verso altri paesi. Tuttavia, soprattutto quest’ultima soluzione non risulta ottimale nel lungo periodo e in una prospettiva globale.

Tabella 1 – impiego di medici per paese, nazionalità e luogo di formazione (2015)

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Fonte: Eurostat;

Nel lungo periodo sarà necessario sia aumentare ulteriormente le risorse disponibili per le specializzazioni – borse e strutture dedicate –, sia rimuovere alcune rigidità strutturali presenti in questo settore del mercato del lavoro, dalle barriere all’entrata alla possibilità per il settore pubblico di usare efficacemente la leva salariale.

Gli squilibri odierni derivano dai vincoli posti in passato – anche attraverso il numero chiuso, impossibile da rimuovere in tempi brevi – nonché dall’ambizione di programmare un’offerta di competenze complesse e costose senza meccanismi di aggiustamento efficaci. L’imminente transizione demografica richiederà interventi di policy per scongiurare una strutturale carenza di medici nel lungo periodo.

Twitter @fraolivanti