Europa al voto di pancia o di testa? Risponde l’economia comportamentale

scritto da il 24 Maggio 2019

Autori di questo post sono Anna Rinaldi, ricercatrice in Economia Comportamentale e docente di Economia e Valutazione delle Politiche Sociali e di Sviluppo presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, e Maurizio Maraglino Misciagna, commercialista specializzato in finanza innovativa e startup –

A pochi giorni dalle elezioni europee, gli ultimi sondaggi commissionati dall’Eurobarometro del Parlamento testimoniano come il numero dei cittadini favorevoli a sostenere l’Unione Europea sia in leggera crescita. Oltre il 50% degli europei è convinto che l’appartenenza all’UE giovi al proprio paese e ritiene che la propria voce abbia un peso importante. Risultati così positivi non si registravano dal 1983.

Eppure, nonostante si appunti un vento favorevole, forte incertezza avvolge i possibili esiti. In Italia come negli altri paesi area euro si sta per giocare una partita importante, ma di cui l’opinione pubblica sembra non essersi accorta. La Brexit, ad esempio, ha colpito al cuore l’Europa e sconvolto gli europeisti che mai avrebbero immaginato un tale esito del referendum britannico. In Italia non si parla molto delle elezioni europee, soffocate a livello locale dal frastuono delle amministrative, ma è inevitabile domandarsi se la coalizione dei sovranisti potrà mai incartare un altro clamoroso risultato.

In questa corsa ai sondaggi dell’ultimo minuto, ci si chiede: Come voteranno gli europei in questa tornata elettorale? E, soprattutto, quali variabili influenzano il voto degli elettori?

Una ricerca condotta dal professor Robert Epstein dell’American Institute for Behavioral Research and Technology ha stimato che il solo super colosso con base a Mountain View – Google – può influenzare il voto  di un quarto della popolazione mondiale, a seconda della quantità di notizie positive o negative su un certo candidato restituite dal motore di ricerca. Chi possiede un account Gmail o sui vari social network offre alla rete una mole di dati che, se opportunamente trattati, ne fanno il bersaglio perfetto per messaggi elettorali mirati e massimamente efficaci. Epstein ha spiegato, tra gli altri, l’effetto SEME (Search Engine Manipulation Effect) in base al quale si possono spostare le preferenze degli elettori indecisi in favore di un determinato candidato, semplicemente attraverso il ranking dei motori di ricerca. Per cui diventa improcrastinabile un sistema di regolazione e monitoraggio dei motori di ricerca.

Gli scandali elettorali degli ultimi anni hanno dimostrato come le informazioni possono influenzare la decisione dell’elettore. La triste vicenda di Cambridge Analytica, la società fondata dal miliardario imprenditore amerciano Robert Mercer, uno dei finanziatori del sito d’informazione di estrema destra Breitbart News, già diretto da Steve Bannon (ex  consigliere e stratega di Trump durante la campagna elettorale alla Casa Bianca), rappresenta l’esempio lampante di come big company come Facebook faticano a tenere sotto controllo il modo in cui sono utilizzati i dati di oltre 3 miliardi di utenti. Ma a riaprire nuovamente l’inchiesta, ci ha pensato  Carole Cadwalladr, giornalista dell’Observer e autrice del reportage che  ha portato alla luce le dinamiche dell’indagine durante il Ted Talk del 21 aprile scorso a Vancouver, per giunta promosso e finanziato proprio dallo stesso Mark Zuckerberg.

Di contro però, esistono anche startup tecnologiche come CivixAI, che usa algoritmi AI per analizzare i pregiudizi subconsci e le abitudini mentali che inducono a prendere decisioni basate su credenze e preconcetti degli elettori. La società utilizza percentuali di polling dei dati e contributi delle campagne per prevedere il comportamento umano, che può quindi essere utilizzato per predire i risultati elettorali. CivixAI sostiene di essere stata in grado di utilizzare questa tecnica per prevedere correttamente la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali del 2016.

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Ma in questo marasma di logiche e tattiche digitali, un aiuto alla comprensione del misterioso comportamento degli elettori nelle urne può arrivare dalla behavioral economics. L’economia comportamentale ci spiega quanto irrazionale possa essere il comportamento degli individui ed il loro modo di “ragionare” ad esso sotteso, anche in ambiti come la politica, in cui bisognerebbe affinare più che mai le armi della ragione. La scienza politica ha migliorato la sua comprensione di come le persone votano rivolgendosi a intuizioni comportamentali, tanto che alcuni principi chiave dall’economia comportamentale, rilevanti sia per la scienza politica che per il voto, possono far luce sul panorama politico contemporaneo.

Se provassimo ad analizzare il modo in cui le persone prendono decisioni, scopriremmo che in ogni competizione elettorale che si rispetti, l’elettore medio diventa decisivo  perché se gli elettori cercano di trovare i candidati più vicini alla loro posizione, ogni candidato dovrebbe fare appello all’elettore medio per massimizzare le prospettive elettorali e ottenere il maggior numero di voti. Questa visione tradizionale del voto ha incrementato la maggior parte dell’analisi politica e della comprensione del comportamento di voto. Gli studi condotti da Amos Tversky e Daniel Kahneman, (che sono valsi a quest’ultimo il Premio Nobel per l’Economia nel 2002) a cavallo tra psicologia, neuroscienze, economia e statistica, sui processi cognitivi e decisionali degli individui ovvero su come vengono prese le decisioni in condizioni di incertezza e di rischio, dimostrano come, persino di fronte a problemi di grande semplicità, spesso gli individui con il loro comportamento, disattendono anche gli assiomi fondamentali che guidano la scelta razionale. Il voto elettorale dovrebbe essere una scelta razionale basata su un’analisi la più oggettiva possibile delle informazioni disponibili, innanzitutto dei dati in serie storica, in modo da formulare previsioni attendibili circa il futuro comportamento degli eletti. Anche a livello individuale il voto razionale dovrebbe implicare un ragionamento statistico, ma gli esseri umani, si sa, ce l’hanno spiegato Kahneman e Twersky, sono dei cattivi statistici e spesso “votano di pancia”, tanto che i politici stessi è alla pancia degli elettori che spesso si rivolgono.

Prima di Kahneman e Tverskyl’homo oeconomicus poteva essere solo un agente razionale e massimizzante ovvero avrebbe preso la migliore delle decisioni possibili sulla base delle risorse scarse e del proprio set informativo (completo). Ed è su queste semplificazioni non da poco che si fonda il liberismo.

Secondo i fondatori della behavioral economics (che annovera tra i suoi studiosi anche Richard H. Thaler, premio Nobel per l’economia nel 2017), attraverso uno schema molto semplificato ma altrettanto realistico, il cervello umano può essere rappresentato come un hardware in cui coesistono due software: il pensiero veloce ed il pensiero lento. Possiamo fare riferimento a questi ultimi anche utilizzando i termini coniati dagli psicologi Stanovich e West, “sistema mentale 1” e “sistema mentale 2”. Il sistema 1 è veloce, intuitivo e grammaticale. Opera rapidamente e automaticamente, con poco o nessuno sforzo e nessun senso di controllo volontario. Il sistema 2 è lento, riflessivo e statistico. Indirizza l’attenzione verso le attività mentali impegnative che richiedono focalizzazione. La maggior parte di ciò che noi pensiamo e facciamo è originata dal sistema 1, ma il sistema 2 prende il sopravvento quando le cose si fanno complesse e di regola spetta ad esso la decisione finale.

E la decisione elettorale è una decisione complessa e per giunta dall’esito incerto, in quanto il singolo, nel segreto dell’urna, è allo scuro di come voteranno tutti gli altri, quindi non è certo neanche dell’utilità concreta del suo voto. La divisione del lavoro tra il sistema 1 ed il sistema 2 è efficiente, in quanto riduce al minimo lo sforzo e ottimizza il rendimento. Il pensiero veloce ha scarsa comprensione della logica e della statistica, che sono appannaggio del sistema 2. Il ragionamento statistico, si sa, è controintuitivo. Le operazioni del sistema 2 richiedono uno sforzo, mentre una delle sue principali caratteristiche è la pigrizia, la riluttanza a impegnarsi più dello stretto necessario. La pigrizia è profondamente radicata nella natura umana. Ma il prezzo da pagare per questa pigrizia a volte è l’errore, il bias.

In conclusione quello che non sbaglia è il sistema 2, il sistema lento, il quale può elaborare un maggior numero di informazioni in modo corretto, secondo un principio statistico. Una generale “legge del minimo sforzo” si applica sia allo sforzo cognitivo sia allo sforzo fisico. Essa afferma che se vi sono vari modi di raggiungere lo stesso obiettivo, la gente tenderà ad adottare quello meno impegnativo.

Riassumendo, gli individui agiscono secondo il principio euristico e non algoritmico. I comportamenti rispecchiano decisioni che sono influenzate da bias ed euristiche. Le euristiche sono delle scorciatoie del nostro sistema per saltare alle conclusioni, semplici procedure che ci aiutano a trovare risposte adeguate, anche se spesso imperfette, a quesiti difficili; i bias sono errori sistematici e prevedibili che si commettono in circostanze specifiche. L’uomo è così: sbaglia, dunque esiste. Se questi meccanismi vengono traslati all’agire politico dei cittadini, ecco che si spiegano molte cose. Perché in campo politico ci aspettiamo che i cittadini votino razionalmente se non sono agenti perfettamente razionali nel loro agire individuale? Detto à la Kahneman, è plausibile ritenere che, dati tempi e tecnologie, sia il sistema 1 a formulare valutazioni in ambito politico, anziché il sistema 2? A nostro  avviso sì. Se pensiamo alla comunicazione dei media e dei social media, si fa riferimento al sistema 1 che risponde istintivamente a brevi slogan e messaggistica ripetuta.

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(Fonte : www.upfrontanalytics.com )

Le decisioni delle persone sono limitate dalla quantità di informazioni che hanno (un concetto noto come razionalità limitata) e dare loro più informazioni non aiuta necessariamente. La nostra capacità di prestare attenzione a due o tre cose allo stesso tempo è molto più limitata di quanto pensiamo. Tendiamo ad essere selettivamente disattenti, eliminando le informazioni che riteniamo non importanti e preferendo le informazioni che confermano le opinioni esistenti.

Gli economisti Richard Thaler e Cass Sunstein in un articolo del 2002  hanno sostenuto che la razionalità limitata richiede “paternalismo libertario”,  limitando le scelte offerte agli elettori senza eliminare la libertà di scelta.

È anche vero però, che le forme più impegnative del pensiero lento sono quelle che ci costringono a pensare in fretta e la politica ad esempio, rientra nella sua complessità in quella cerchia e ci costringe a pensare in fretta. Ormai la politica è diventata un pensiero veloce. Il cuore del problema non è la disinformazione o le fake news. È la riflessione, e poi la decisione. Lo scibile umano è “a portata di click”, tutti gli inclusi (socialmente) e votanti hanno accesso ad almeno un device connesso ad internet.

È plausibile pensare che i giudizi che traduciamo in voto nell’urna spesso siano frutto del pensiero veloce, anziché del pensiero lento – come dovrebbe essere- che danno luogo a dei bias, spesso emotivi.

Un altro esempio è il c.d. effetto alone, che consiste nell’estendere il giudizio positivo, relativo ad una sola caratteristica di una persona o di un oggetto, a tutto ciò che riguarda l’oggetto o la persona in questione. Ad esempio riconoscendo la spiccata capacità imprenditoriale di un individuo, sono portato a credere questo sia una persona capace a 360°, anche come politico. La pericolosità non risiede nell’errore in sé quanto nel fatto che lo compiamo inconsciamente, senza accorgercene.

Informazioni stratificate vengono pescate selettivamente per saltare a una conclusione, non validata dal punto di vista statistico. Ciò che manca a livello singolare, manca anche a livello collettivo, ed è il pensiero lento. Noi esseri umani spesso non siamo in grado di prendere decisioni esatte dal punto di vista razionale sulla base di ciò che conosciamo. Il pensiero politico che esprimiamo a livello collettivo appare carico di bias, preconcetti che ricorrono in maniera prevedibile in particolari contesti. In politica è più facile che trionfi un meme qualunque, inteso à la Dawkins, un gene egoista, il cui tratto fondamentale è la replicabilità, non la sensatezza. Un concetto elementare è massicciamente preferito a un ragionamento sottile ed articolato che richiede sforzo. Perché come affermano Kahneman e Twersky l’essere umano è un agente massimizzante solo in termini di risparmio dello sforzo mentale. Dunque, la sua attitudine connaturata è la pigrizia. In politica i sentimenti prevalgono sulla ragione. Impressioni e intuizioni valgono più di una proposta politica coerente.

Dan Ariely, professore di psicologia e economia comportamentale presso la Duke University, in uno dei suoi libri di maggior successo, “Predictably Irrational, afferma che i consumatori irrazionali invalidano gli argomenti a favore del libero mercato, vale a dire quelli che sostengono che la libera scelta del consumatore porta all’economia più efficienza e produttività. Poiché i consumatori sono irrazionali, sostiene Ariely, abbiamo bisogno che le autorità intervengano e regolino l’economia. Per capire bene come l’irrazionalità incide sulle scelte, l’autore cita un esperimento svolto durante la sua ricerca,  in cui a un gruppo di  consumatori è stato chiesto per la prima volta di scegliere tra due tipologie di cioccolatini, la prima di qualità rinomatamente superiore rispetto alla seconda: un Lindor della Lindt da  0,26 $ ed un bacio di Hershey da 0,1 $ . I consumatori hanno scelto il Lindt con grandi margini, perché a $ 0,26 un Lindor era una grande occasione. Ma quando gli sperimentatori abbassarono il prezzo di ogni prodotto di 0,1 $, così il Lindt divenne $ 0,25 e il bacio di Hershey divenne gratuito, il numero di consumatori che scelse quello di Hershey fu più che raddoppiato. Questo comportamento prevedibilmente irrazionale è spiegabile attraverso la loss aversion (avversione o paura della perdita), un “istinto naturale” che ci porta a scegliere non più la condizione razionalmente migliore, ma la condizione nella quale non perdiamo nulla, apparentemente priva di rischi.

Immaginiamo adesso di replicare lo stesso esperimento in un contesto di elezioni politiche in cui ci troviamo di fronte ad un politico ragionevole e intelligente che ci ha promesso servizi pubblici efficienti a pagamento, e un politico meno qualificato che ha promesso gratuità nei servizi pubblici. L’esperimento di Ariely suggerirebbe che gli elettori sceglierebbero irrazionalmente quest’ultimo.

L’economia comportamentale è in grado di comprendere il comportamento degli elettori molto meglio di un modello standard razionale, fornendo approfondimenti su come le persone si comportano effettivamente e assegnando una migliore descrizione della realtà.

Il dibattito pubblico dovrebbe focalizzarsi per la prima volta nella storia su temi quali la capacità di analisi politica dell’elettorato attivo, i meccanismi di scelta politica, la selezione delle fonti di informazione, restituendo così alla democrazia il vero senso di partecipazione dei cittadini alla vita dello stato, riparandosi da meccanismi irrazionali di mera faziosità comuni agli slogan e ai meme, disponibili tanto a destra quanto a sinistra. A livello collettivo, per sorpassare questo stadio di analfabetismo politico, è necessario riabilitare a livello individuale il software 2, il pensiero lento. E dobbiamo farlo in fretta, perché corriamo il rischio che tecnologia e innovazione, trasformino gli automi in esseri ibridi molto più razionali degli esseri umani.

Twitter @lospaziodimauri