L’empatia e l’adattabilità ci salveranno dal dominio della tecnologia?

scritto da il 04 Giugno 2019

L’autore di questo post è Massimiliano Vigoni, manager presso BiP (Business Integration Partner) e allievo dell’executive Mba EMBA Ticinensis

Verso l’infinito e oltre… no, non si tratta della quinta saga della serie Toy Story ma, dell’ormai incessante procedere con lo scavare un solco che è già enorme. Nel 2018 soli 26 individui possedevano la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, corrispondente alla metà più povera dell’intera popolazione mondiale.

Molti credono che sia un abisso che affligge soltanto i paesi in via di sviluppo. No, non solo. Si tratta in realtà di un fenomeno globale dove le moderne tecnologie giocano un ruolo cruciale e sono in prima fila nello spostare questi equilibri sempre più velocemente.

Da sempre ogni disruption tecnologica ha portato con sé un profondo cambiamento all’interno della società ma, forse per la prima volta, oggi il cambiamento non solo è prevedibile, lo si ritiene necessario. Vi dirò di più, in passato è sempre stata la rivoluzione industriale a trainare il cambiamento. Oggi, che gli stravolgimenti sono molteplici e quotidiani, è indispensabile ragionare in maniera predittiva, ripensare in anticipo la società del futuro e a come questa si potrà adattare alle tecnologie che verranno.

La domanda che sta alla base di tutto però è: tutta questa nuova tecnologia sta davvero migliorando le nostre vite? La risposta è affermativa. La chiave risiede nella nostra capacità di gestire questo enorme cambiamento. Sapremo quindi rompere il paradigma in cui l’uomo è trainato dalla tecnologia?

Martin Heidegger sosteneva: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasforma in un dominio completo della tecnica. Più inquietante è che l’uomo non sia preparato a questo radicale mutamento”.

Dovremo essere in grado di metterci in gioco sempre più spesso e imparare a riqualificare le nostre competenze. Secondo uno studio dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, pubblicato nel 2016, una percentuale tra il 50 ed il 70% dei lavoratori di tutto il mondo potrebbe veder automatizzata una larga parte delle proprie mansioni.

Al giorno d’oggi siamo abituati a ragionare per compartimenti stagni. Nasciamo, cresciamo, ci formiamo, per poi affacciarci al mondo del lavoro e seguire la strada che ci siamo disegnati (o che ci è stata disegnata), spesso senza accettare possibilità di deviazioni o di riqualificazioni. Talvolta siamo noi stessi a chiuderci senza riflettere se siamo preparati a gestire il cambiamento che incombe, ma sta solamente a noi capire se vogliamo farlo, se vogliamo essere noi a tirare le fila di questo nuovo mondo.
In che modo? mantenendo la persona al centro, ma cambiando le nostre skills. “Il progresso è la realizzazione delle utopie”, sosteneva Oscar Wilde. Proprio per questo in futuro diminuire l’orario lavorativo medio, abbandonare i lavori più pesanti e usuranti, non sembrerà più un paradosso. Lavorare meno per produrre di più con una qualità e creatività superiori.

Alcune competenze tecniche diverranno meno necessarie, a vantaggio di quelle organizzative e relazionali che diventeranno più centrali. Meno routine, quindi, più creatività, il che non sarebbe un male.

La robot-rivoluzione farà sicuramente salire il Pil, ma anche incrementare ulteriormente le disuguaglianze. L’idea di uomini complementari ai robot aiuta meno di quanto si possa pensare. I lavoratori che competono per i medesimi impieghi aumenterebbero in maniera esponenziale, abbattendo ulteriormente il salario medio. Si stima, infatti, che l’introduzione di un robot per ogni mille lavoratori riduca il tasso di occupazione locale di un ammontare compreso tra 0,2 e 0,3 punti percentuali e il salario medio di un ammontare compreso tra 0,25 e 0,5 punti percentuali.

Cosa fare allora? A ben vedere è necessario agire su molteplici fronti in quanto empatia ed adattabilità da sole non saranno sufficienti. La madre di tutte le sfide è di natura politica.

Siamo chiamati quindi a darci un set di regole universali e condivise, di paletti invalicabili dalla tecnologia – etici ed economici – che non consentano ad una nazione o ad una qualsivoglia entità privata sovranazionale, dotata di risorse illimitate, di prendere il sopravvento allargando ulteriormente il “divide” sociale. È arrivato il momento di mettere da parte gli interessi dei singoli, mettendo fine al sistema di autoregolamentazione dei cosiddetti over the top e creare una Super Authority della Tecnologia che garantisca l’enforcement di queste regole.

Il tutto deve essere accompagnato dall’introduzione di un reddito universale incondizionato. Cosa intendo? Parlo di un reddito completamente slegato da qualsivoglia logica remunerativa o di impiego, che aiuti a redistribuire la ricchezza per mitigare l’aumento della quota che va al capitale a discapito del lavoro. Su queste mie parole si apriranno sicuramente innumerevoli dibattiti etici ma, l’obiettivo ultimo è quello di superare il concetto di puro “assistenzialismo sociale”.

Di fatto noi tutti partecipiamo alla catena di creazione del valore. L’unica distinzione consiste tra chi viene remunerato e chi no. Sono ben conscio di fare un’affermazione forte ma, solo rendendo il lavoro una scelta di vita sarà possibile contrastare la “trappola” del lavoro obbligato e sottopagato.

Come può autosostenersi questo modello senza far ricorso alla tassazione? Tramite la creazione di un “Fondo collettivo”. La cui ricchezza la forniranno gli stessi soggetti che ora se ne stanno appropriando disinvoltamente, attraverso l’applicazione di una “donazione obbligatoria” sopra una certa soglia di reddito (è lo stesso Bill Gates a proporlo in una intervista su “The Conversation”).

In questo modo, il finanziamento del reddito di base avverrebbe sotto forma di reddito universale e incondizionato, inteso come dividendo del rendimento economico di un capitale pubblico.

Non avendo l’intento di farne un puro esercizio intellettuale (ci sono già innumerevoli scrittori e accademici per questo) posso solo affermare che dobbiamo guardare a buon viso verso questo salto culturale. L’impressione è che o lo faremo noi o rischieremo che sia la tecnologia stessa a farlo, senza guardare in faccia a nessuno. Saremo in grado di diventare specialisti della mente aperta? Di approcciare le sfide che ci attendono facendo leva su entusiasmo, empatia e adattabilità? È una storia ancora da scrivere, un foglio bianco ancora intonso. Sta solo a noi scriverla bene.