America First o Alone? Anatomia della politica commerciale di Trump

scritto da il 28 Giugno 2019

L’autore del post è Bernardo Mottironi, nato nel 1994 a Roma. Frequenta il PhD in Economics alla Lse, dopo essersi laureato in Bocconi ed essere stato assistente di ricerca presso la Bce. È senior fellow del think tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.

Dopo Cina e Messico è la volta dell’Europa di Mario Draghi, ultimo bersaglio dei recenti tweet “mercantilisti” di Donald Trump. Queste esternazioni al di fuori del protocollo, a cui il presidente ci ha ormai abituati, accompagnano misure concrete di guerra commerciale, da riassumere in 5 mosse principali.

Il primo intervento significativo è di inizio 2018, quando per prevenire danni all’industria nazionale Trump ha approvato i primi dazi su oltre 10 miliardi di dollari di prodotti importati (pannelli solari e lavatrici), provocando le misure ritorsive di Cina e Corea del Sud. Il secondo intervento, di marzo 2018, ha riguardato l’import di acciaio (dazi del 25%) e alluminio (10%), classificato come minaccia alla sicurezza nazionale, prima diretto anche a paesi storicamente alleati come Canada ed Unione Europea (in seguito esentati) e poi alla Cina, la cui reazione non si è fatta attendere. La misura successiva (di luglio dello scorso anno) ha colpito beni tecnologici di produzione cinese (dazi del 10%, poi alzati al 25%), a cui la Cina ha risposto con dazi del 10% sui beni intermedi di origine statunitense. Gli ultimi due interventi sono tutt’ora in corso di definizione: il quarto, per ora rimandato, è diretto al settore automobilistico e colpirebbe in particolare beni importati da Germania, Giappone e Corea; il quinto è diretto al Messico, che verrebbe colpito da misure restrittive qualora non intervenisse per una drastica riduzione dei flussi migratori.

Una stima credibile degli effetti delle prime tre mosse (pannelli solari e lavatrici, acciaio e alluminio, tecnologia cinese) è stata recentemente pubblicata su uno studio Nber, il quale ha rivelato che il costo dei dazi di Trump sia stato pienamente trasferito sui prezzi dei beni importati, senza significative riduzioni dei margini di profitto delle imprese estere (full pass-through). Pertanto, l’effetto della misura è ricaduto principalmente sui consumatori (-0,37% del Pil) e solo in parte è stato compensato dal vantaggio competitivo per le imprese americane (+0,33%), quest’ultimo concentrato nelle regioni contese tra Repubblicani e Democratici, probabilmente per ragioni di natura elettorale. Inoltre, i parziali benefici sono stati ulteriormente bilanciati dagli effetti dei dazi ritorsivi praticati dalla Cina, che hanno avuto un impatto rilevante soprattutto sui salari nei settori agricoli aperti alle esportazioni: paradossalmente, proprio dove Trump aveva ricevuto un consenso elettorale notevole.

Il risultato economico piuttosto deludente mette in discussione la validità della strategia unilaterale, ma non per questo si può negare che una politica commerciale meno tenera verso la Cina abbia anche alcune ragioni, come spiegato in un nostro articolo precedente. Sebbene la liberalizzazione degli scambi internazionali possa comportare vantaggi consistenti in termini di efficienza allocativa e crescita, aprendo nuovi mercati alle imprese più competitive, gli effetti collaterali di natura socio-economica non devono essere trascurati: la globalizzazione è un fenomeno complesso che produce vincitori e vinti. Gestire le transizioni è essenziale per evitare l’emarginazione dei pezzi di società che rischiano di non ricevere benefici, a cominciare dalla classe lavoratrice attiva nei settori più esposti alla concorrenza estera, specie se quest’ultima non è tanto motivata dall’efficienza delle imprese straniere, quanto da norme sociali o ambientali meno stringenti, come è spesso avvenuto nel caso cinese.

Diverso è il caso europeo, oggetto del tweet piccato diretto pochi giorni fa a Draghi, reo di aver indicato ai mercati un orientamento espansivo della Bce, che può contribuire a un indebolimento dell’Euro sul Dollaro e favorire la competitività delle imprese europee.

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In effetti, dopo il deprezzamento del Dollaro avvenuto nel primo anno di presidenza Trump (1€ comprava 1,07$ al giorno della sua elezione e 1,23$ dopo un anno), il trend si è invertito (1,12$ oggi) e il Dollaro potrebbe continuare ad apprezzarsi. Tuttavia, risulta difficile accusare l’Europa di una strategia da guerra valutaria, non soltanto perché il mandato della Bce non prevede alcuna politica del cambio, ma soprattutto perché l’inflazione dell’Eurozona è ancora debole e un’espansione monetaria è perfettamente giustificata dal target del 2%. Piuttosto, quello che Trump potrebbe recriminare all’Europa (e alla Germania in particolare) è la carenza di investimenti interni: un modello di economia guidato da esportazioni e moderazione salariale, frenando la domanda interna, riduce le importazioni e quindi la crescita potenziale degli altri paesi, traducendosi in una forma di beggar-thy-neighbor policy, ossia una politica che crea vantaggi a un paese nella misura in cui danneggia un altro.

Risulta difficile però conciliare la narrazione sovranista dell’America First (verrebbe da dire America Alone) con la richiesta a un paese estero di aumentare i propri investimenti. Su questa contraddizione si sfalda la strategia di Donald Trump, che si pone ambizioni da governance globale e le insegue con mosse unilaterali, nel più classico caso di applicazione del trilemma di Rodrik. Secondo il noto economista di Harvard, sarebbe impossibile avere simultaneamente la globalizzazione economica, l’autodeterminazione nazionale e la democrazia. Pertanto, se il processo decisionale avviene esclusivamente a livello degli stati nazionali (e mai a livello globale) e ogni accordo internazionale può essere posto in discussione dal voto democratico, la tutela degli interessi particolari è incompatibile con una fitta integrazione economica, la quale richiederebbe invece azioni concertate nell’interesse generale.

Per uscire dall’impasse, come riconosce lo stesso Rodrik in un articolo recente, è impraticabile il sostegno alla globalizzazione attraverso un ritorno in auge del “vincolo esterno”, espressione resa popolare da Guido Carli per indicare l’insieme di limiti alle scelte nazionali per ragioni di carattere globale. La centralità di un vincolo che viene dal di fuori, infatti, è stato in alcuni casi la causa di fallimenti economici (si pensi alle critiche ex post al Washington Consensus) e in altri casi un alibi potente per rivendicazioni di carattere sovranista, su cui lo stesso Trump ha incentrato la propria narrazione, utile a nascondere i fallimenti delle classi dirigenti nazionali. Piuttosto che limitare il ventaglio di scelte possibili dei singoli stati, interferendo nel merito delle scelte politiche dei governi, la governance globale dovrebbe occuparsi delle prassi istituzionali, promuovendo pratiche efficienti nel meccanismo decisionale, come ad esempio standard di trasparenza, responsabilità personale dei decisori pubblici e uso dell’evidenza scientifica nel disegno delle policy: evitando quindi il merito delle politiche (a valle), per intervenire sul metodo con cui esse vengono prese (a monte). Pur non costituendo un argine inscalfibile a scelte economicamente ingiustificabili, un approccio di questo tipo favorirebbe una selezione più oculata delle politiche pubbliche, togliendo lo spazio agli alibi pericolosi di cui si nutre la demagogia.

Twitter @Tortugaecon @bando_mottironi