L’eredità politica (senza eredi) di Marchionne

scritto da il 01 Agosto 2019

Sono stati tanti i ricordi tributati a Sergio Marchionne ad un anno dalla sua scomparsa. I suoi numeri, le sue citazioni, i suoi record riecheggiano sulla stampa e sui social. Così come facevano le sue interviste mordenti.

La sua eredità è pesante, soprattutto per FCA. La capacità di anticipare i trend di mercato e di dare fiducia agli investitori, restano caratteristiche difficilmente replicabili. È rimasto invece intatto il suo messaggio sulla necessità di consolidamento del settore e di ricerca di un partner per FCA stessa. Ma per il momento l’unico approccio concreto -con Renault- si è arenato.

Se il mondo dell’auto ha perso la sua rockstar, anche l’imprenditoria italiana ha accusato il colpo. La scomparsa di un manager globale, con istinto italiano e forma mentis anglosassone, ha privato il sistema di una voce disruptive. Una voce capace di mettere a nudo le difficoltà del nostro capitalismo: messaggi senza filtri e intermediazioni.

Ripercorrendo la sua carriera in Fiat, soprattutto prima della fusione con Chrysler, si notano gli strappi muscolari di Marchionne con decenni di relazioni industriali italiane. Dall’uscita da Confindustria ai referendum infuocati a Pomigliano e Mirafiori, in perenne lotta con la Fiom. Non faceva sconti a nessuno, da Obama a Landini. Ostinato anche nei maggiori fallimenti, come nel caso delle mancate fusioni con Opel e General Motors. O quando insisteva nel sostenere la validità di piani industriali irrealizzabili.

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Nel libro scritto da Tommaso Ebhardt, giornalista di Bloomberg che lo ha seguito per dieci anni in giro per il mondo, emergono alcuni tratti del Marchionne-pensiero sul nostro Paese. Su quell’Italia amata dal manager con la tipica rabbia di ogni emigrato.

Così in un’intervista concessa ad Ebhardt. «(…) Se l’Italia nella classifica della competitività si trova oltre la centotrentesima posizione per me il concetto è chiaro. Non mi metto a raccontare che il Paese ha raggiunto quel livello perché al Nord piove in autunno o a Roma c’è troppo sole a giugno. Io non ti racconto stronzate, te lo dico chiaro e in faccia: il Paese non è competitivo, andiamo e sistemiamo questa situazione.»

Ecco il bagno di realtà che spesso manca al nostro Paese. Perché in Italia si oscilla tra una petulante esterofilia ed estreme tendenze auto-assolutorie.

Prosegue l’intervista.

«La seconda ragione per cui non piaccio in questo Paese è che il nostro sistema, e mi riferisco in particolar modo alla Fiat e alle altre grandi imprese, è stato storicamente usato per mantenere la pace sociale come risultato di un compromesso, in assenza d’alternative migliori. Il problema è che mantenere l’armonia sociale è costato troppo al nostro sistema, abbiamo buttato a mare la competitività del nostro Paese per ottenerla. Fino a che c’era la lira, il sistema monetario ha funzionato assorbendo gli choc. Ogni problema di competitività veniva in qualche modo compensato da una svalutazione della moneta sui mercati internazionali. Poi abbiamo deciso di entrare a far parte dell’euro per ottenere il rispetto dei mercati finanziari

E poi l’affondo finale.

«Hai voluto diventare un Paese rispettabile? Bene, allora devi fare anche il passo successivo. Non puoi continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto come facevi prima usando la svalutazione della lira, la devi togliere e pulire tutto quello che trovi. L’Italia ha bisogno di essere nuovamente industrializzata partendo da zero. Va fatto una seconda volta, come dopo la guerra, negli anni Cinquanta. Con la grande differenza che il mondo in cui ci troviamo adesso è totalmente diverso dal secondo dopoguerra. Dobbiamo abbandonare la rilassatezza del passato, le abitudini tribali, tutte le routine degli ultimi decenni. Devi avere il coraggio di provare a rialzarti di fronte al mondo intero che ti punta gli occhi addosso e dice che sei uno dei maggiori pericoli per l’economia globale. Se non sei in grado di fare questa presa di coscienza, allora non vai da nessuna parte.»[1]

Marchionne parlava liberamente, non utilizzava tecniche di narrazione. Ma dobbiamo evitare il rischio che a dire le cose come stanno siano unicamente gli emigrati dal dente avvelenato. Né si può erroneamente credere che uno come lui avrebbe potuto intraprendere una carriera politica con un successo analogo a quanto ottenuto come manager di aziende private.

La sua eredità politica ha una natura diversa.

Rappresenta un pensiero schietto sulla impasse economica che il nostro Paese vive da decenni, sui problemi strutturali che ci portiamo dietro da tempo, sulle distorsioni del nostro capitalismo e sulla mancanza di volontà o di autorevolezza della classe dirigente (non solo politica) di risolverli.

Ed è un’eredità senza eredi.

Twitter @frabruno88

[1] Ebhardt T., “Sergio Marchionne”, pubblicato per Sperling & Kupfer da Mondadori Libri SpA, aprile 2010, cit. p. 83