Tempi moderni: ormai è obbligatorio avere tre lavori

scritto da il 08 Agosto 2019

Oggi avere un solo lavoro non basta più. È ormai obbligatorio aver 3 lavori. Sembra assurdo in una terra come l’Italia (andiamo sul nazionale), dove è già difficile trovare 1 lavoro, doverne avere 3. Ma l’unica soluzione oggigiorno è 3. È il numero perfetto, anche i greci sostenevano che fosse il numero perfetto (parlo della antica Grecia non quella fallita di recente). Che tu sia un dipendente o un imprenditore ci son poche storie: 3 è il numero per te.

“Fino a 30 anni fa la carriera lavorativa si maturava solitamente all’interno di una stessa azienda, se non addirittura nell’ambito di una stessa funzione”, mi spiega Marco Vigini, presidente di AIDP lombardia (Associazione Italiana per la Direzione del Personale). “Le aziende erano molto più limitate rispetto a quelle di oggi, la loro complessità minima e le funzioni aziendali erano minori, stabili, ed inserite in un contesto di sistema ‘garantista’. Fare carriera era come salire su una scale mobile con un percorso già disegnato e predefinito nei suoi principali step”. Piaccia o meno il mondo è cambiato e con esso le aziende. Giusto per non essere troppo generalisti ho pensato di circoscrivere l’analisi al mondo occidentale e, nel possibile, all’Italia. Cerchiamo di capire veramente quali sono questi 3 lavori giusto per comprendere come ci si può muovere.

Primo lavoro? Lo stipendio a fine mese

Il primo tipo di lavoro è quello che conosciamo tutti: si concede tempo e capacità mentali e in cambio si ricevono soldi. Il normale lavoro che inizi e dove fai carriera. Nulla di complesso (salvo trovarlo e tenerselo, eventualmente). Senza entrare nel merito della tipologia di contratto che si possiede o il livello di anzianità è quello che gli inglesi chiamano bread’n’butter (pane e burro). Quello che ti dà sostentamento e, auspicabilmente, ti permetterà di andare in pensione. Non è un segreto per nessuno che questa tipologia di lavoro nel tempo è mutata e quello che era il “tempo indeterminato” è divenuto quasi un’eccezione più che la norma (salvo nel settore pubblico). Tra soluzioni a tempo determinato e consulenze mascherate (partite Iva che lavorano come dipendenti), etc… le cose sono cambiate molto. Ciò nonostante questa è una delle 3 gambe del mondo del percorso professionale che ognuno di noi deve (se vuole, si intende) utilizzare.

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“Quando parliamo di contratto a tempo indeterminato è una storia italiana che non esiste più, non prendiamoci in giro!”, mi spiega Antonio Leone presidente di IAG (Italian Angels for Growth). “Non esiste nessun lavoro a tempo indeterminato: lo è nella misura in cui la società per cui si lavora è competitiva, quando non è più competitiva il mio contratto non vale più nulla e mi mandano a casa. Questa è la nuova normalità, creata da due fattori: dirompente innovazione tecnologica e i relativi effetti sul commercio (digitale). Con questi due aspetti ci si dovrà sempre confrontare, in ogni momento della nostra esperienza lavorativa. La diretta conseguenza è che si deve sempre imparare, e aver paura di muoversi è mortale per una carriera (in gergo la famosa comfort zone). In una società in grande evoluzione, come quella occidentale, il sistema è molto competitivo. La consolidata abitudine di concentrarsi su una singola attività/lavoro è estremamente pericolosa. Per fare un paragone è come se, in ambito finanziario, si investissero tutti i propri soldi in una singola azione. La regola d’oro, quando s’investe in finanza, è la diversificazione.”

Citando la finanza viene naturale chiedere un’opinione ad Alessandra Losito, direttore delle sedi di Milano/Roma di Pictet Wealth Management, uno dei maggiori wealth management mondali  (patrimonio gestito intorno ai 500 miliardi di franchi svizzeri). Una donna manager che ha alle spalle una carriera di tutto rispetto in un mondo, quello della finanza, spesso considerato “maschile” (con tutte le sfide che una donna si trova a dover affrontare). “Ognuno di noi svolge il proprio lavoro in base agli studi fatti e alle proprie inclinazioni”, mi spiega Alessandra “ma il mondo del lavoro evolve rapidamente, distruggendo professioni e creandone di nuove: può succedere a tutti di cambiare all’improvviso settore e attività. Ecco che, avere da prima una visione allargata (the big picture come dicono gli americani) del mondo intorno può aiutare nei momenti di discontinuità professionale. Bene inteso questo approccio di mentalità aperta, non limitato alla attuale attività lavorativa, aiuta anche se si continua a svolgere il medesimo percorso lavorativo per ampliare le proprie opportunità.”

Comincia ad apparire chiaro come il singolo lavoro (che per molti è considerato l’unico lavoro) è solo una delle tre gambe della stabilità professionale (e perché no anche personale). Si può ancora ipotizzare che sia dovere dell’azienda, presso cui si lavora, prendersi carico della formazione del dipendente? Il termine comune è “formazione permanente”. Implica una serie di corsi, più o meno strutturati, decisi dalle risorse umane. Lo scopo, chiaramente, è rendere sempre più efficiente e performante il dipendente. Tuttavia, e qui sta l’incognita, la formazione aziendale è ovviamente allineata agli interessi dell’azienda. Nulla di strano in verità, ma con la repentina evoluzione di molti ruoli lavorativi (o la loro estinzione) ci sarebbe da considerare se il dipendente possa fare semplice affidamento alla sola formazione permanente della sua azienda (ammesso che essa esista).

“Oggi sono radicalmente cambiati costrutti e paradigmi in un contesto sempre più liquido dove il mercato tende ad essere globale e dove le interconnessioni sono continue”, conviene Vigini. “In questo mercato, profondamente cambiato, rispetto a quando ho iniziato 25 anni fa, le aziende non sono più in grado di assicurare percorsi certi. Oggi forse dovremmo iniziare a parlare di quello che sta avvenendo all’estero e cioè della permanent flexibility (flessibilità permanente), dove le persone iniziano a decidere dove e come lavorare (esempio, fenomeno Gig economy) oltre che a governare la loro employability e apprendimento: per il futuro, già entrato in casa, sarà prima di tutto responsabilità del dipendente governare proattivamente la propria employability (tradotto, la capacità di ottenere e mantenere un lavoro) per restare competitivo nel mutato scenario senza necessariamente aspettare che l’azienda lo faccia al suo posto”.

E sul tema “mantenersi assumibile (employability)” torna anche Losito discutendo delle famose soft skill. “A prescindere dall’inquadramento, dipendente/libero professionista, oggi diventa indispensabile, sia per i giovani che per gli adulti già inseriti nel mondo del lavoro, dotarsi di un set di particolari capacità: creatività, spirito critico, capacità di visione e di risolvere problemi, empatia, capacità di persuasione, di lavorare in team, di apprendere nuove competenze lungo tutto il percorso professionale. Chi non lo fa, rischia di rimanere fuori dal forte cambiamento in corso”.

“Quando decisi di lanciare un’attività imprenditoriale fondando la mia società, la priorità fu la sostenibilità economica del progetto”, spiega Andrea Pietrini Chairman di YOURgroup. “Pur muovendomi già da imprenditore avevo ancora una impostazione da dirigente aziendale, per il quale, a fine mese, è importante avere delle entrate. Il primo lavoro è sicuramente necessario, ma si deve espandere la propria visione per assicurarlo”.

E dalle parole di Pietrini prendo spunto per introdurre il secondo lavoro. Ora che abbiamo definito lo scenario del primo lavoro, e le sfide crescenti che esso richiede (per tenerselo), cominciamo a capire che il singolo lavoro non è più l’unica cosa di cui preoccuparsi, in ambito professionale. Dalle soft skill alla formazione continua ci si deve muovere per non restare indietro. Dando per assunto che, oltre alla formazione (ammesso che sia presente in azienda), serve anche avere una rete di contatti che non siano solo della ristretta cerchia del lavoro, possiamo passare al secondo lavoro obbligatorio.

Associazionismo: Dalla bocciofila al Bilderberg ce n’è per tutti

Ora, esiste un evento piuttosto noto quando una coppia si lascia. Gli amici della coppia si polarizzano e si dividono. Da un giorno all’altro avviene uno schieramento. Il Marco, con cui andavate sempre a vedere la partita, è sposato con la Carla. E la Carla è la migliore amica di vostra moglie (anzi ex-moglie). Quindi la Carla ha chiarito al Marco che con voi, uomo cattivo, il Marco non deve più andare a vedere la partita, pena l’astinenza a vita. La cosa fa ridere ma chiunque si sia divorziato potrà testimoniarlo. Se un divorzio è cosi traumatico figuratevi quando la vostra azienda vi licenzia.

Tutti i vostri contatti di lavoro si faranno statue di sabbia durante i monsoni. Pochi buffi di vento e si dissolveranno. E non parliamo dei contatti esterni: chi prima vi lisciava il pelo per vendervi servizi o prodotti ora, a Natale, non vi regala più nemmeno una bottiglia di aceto. Quelli a cui vendevate forse potrebbero usarvi. Dopo tutto se avete contatti utili magari potreste fare i commerciali per loro. Per un po,’ salvo poi rubarvi i contatti e scaricarvi. Ecco ora siete nudi. 

“Quando si esce da un sistema, come potremmo definire quello aziendale, ci si sente veramente persi: tutte quelle piccole cose (a volte utili, a volte superflue) a cui si era abituati svaniscono. Dal supporto tecnico per il proprio PC, alla gestione della propria agenda. Ora, dato che un imprenditore deve essere qualcuno che conta in primis sulla propria iniziativa, saper imparare velocemente ad essere autosufficienti è vitale. Tuttavia una soluzione come quella dell’associazionismo ti permette di avere una rete emotiva e operativa con cui interagire, scambiarsi consigli e, perché no, trovare nuovi partner o clienti”, mi spiega Pietrini.

Di qui la necessità di costruire una strategia legata all’associazionismo. Visto come una rete sociale esterna (parallela quanto meno) alla vostra rete lavorativa, una rete che può supportarvi in caso di emergenze, utile anche per espandere la vostra attività o trovarne un’altra.

“Nel nostro caso non siamo un’associazione tradizionale”, mi spiega Leone, di Iag. “In IAG ci si associa perché si vuole essere parte attiva della crescita, che passa, obbligatoriamente, per l’innovazione. In quest’ottica se una persona che ha risorse economiche, culturali e tempo investe insieme ai soci IAG in startup e innovazione ha fatto bingo: continuerà a guadagnare,  lavorare e in più potrà avere un paracadute con piccoli investimenti. La presenza in IAG permette, ad ogni associato, di essere esposto contemporaneamente, a progetti innovativi e a una contaminazione culturale che permette, per osmosi, un aggiornamento continuo. Per molti manager questo è un vantaggio, considerando che molte aziende tendono ad essere conservatrici sul tema innovazione a 360°”.

Una visione più orientata agli aspetti social arriva da Losito.

“La scelta dell’attività di volontariato non può partire da quello che è utile, ma dagli ideali che ci stanno a cuore. Da anni, ad esempio, io ho scelto due progetti: l’istruzione dei giovani e l’empowerment femminile, attraverso vari network. Ho raccolto fondi ed organizzato eventi, perché sono temi che mi coinvolgono emotivamente. L’effetto secondario positivo è sicuramente un allargamento del network ma non può essere il primo obiettivo. Per l’attività associativa si incomincia da quello che ci appassiona”.

Torna sul taglio professionale Vigini. “Infatti il classico mestiere per come lo conosciamo ormai non esisterà più. Inoltre, anche grazie alle tecnologie, le persone sempre di più scaricano a terra passioni e interessi cui non sempre l’azienda riesce a dare un’adeguata risposta, soprattutto dopo i 40/50 anni. A questo crescente bisogno l’associazionismo può essere una risposta. L’associazionismo professionale (ma non solo) è un momento fondamentale di un professionista in quanto è il crocevia di confronto, benchmark, di sviluppo di progetti anche di rete, di aggiornamento e formazione professionale: un luogo di network dove crescere e migliorarsi come persone e professionisti ed anche dove cogliere i trend in atto nella professione, talvolta anche in anticipo”.

Ora resta il terzo lavoro. Se con il primo ci si campa e il secondo si amplia la propria persona, professionalmente parlando, il terzo è quello che permette di “posizionarsi”.

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Personal Branding: Faccio cose, vedo gente.

Esiste il mondo digitale e dei social. Ignorarlo equivale chiudersi in un eremo nel profondo del Gobi. È fondamentale comprendere che curare la propria persona, in ambito di “brand” è fondamentale. Considerare se stessi come un’azienda è il modo più pratico per capire il valore e l’importanza del personal branding. Di fatto la promozione della propria professionalità, competenza e soft skill ha differenti strumenti. Dai “vecchi” media come giornali, radio e tv ai nuovi strumenti quali i social con focus B2b per Twitter e Linkedin, più orientato al B2c se si usa Instagram e Facebook. Sia come sia la promozione della propria professionalità deve essere un approccio strutturato e costante nel tempo.

“Quando ho deciso di muovermi da solo ho presto compreso quanto fosse vitale il personal branding” introduce Pietrini. “Viviamo in una società che apprezza la professionalità ma a questa professionalità è importante dare visibilità. Non nascondo che tra tutti gli strumenti LinkedIn è il mio preferito. Mi permette di dialogare con differenti attori, interagendo con loro pubblicamente e privatamente. Rispetto ad altri social è più professionale. Tuttavia è sempre vitale comprendere che la vita nei social è la vita vera. Quindi seleziono con attenzione i contenuti che promuovo in rete, monitoro il loro traffico e la generazione di lead o semplici inviti a connettersi. Ammetto che da dipendente trascuravo questi strumenti, dando per scontato che l’azienda avrebbe fatto questo lavoro per me. Con il cappello dell’imprenditore, ora invece comprendo appieno il grande impegno che il personal branding richiede, e tuttavia, se gestito bene, anche i grandi risultati, come dimostra il successo di YOURgroup”, conclude Pietrini.

Oggi vedo molta gente fare grossi errori nell’uso dei social: sono proprio i social che danneggiano il personal branding”, attacca Leone. “Se su Facebook dici parolacce o posti foto incongruenti con il tuo lavoro è peggio di un giornale: i social sono a costo zero e chiunque può usarli senza spendere un euro. Se non li gestisci bene potrebbero ritorcersi contro. D’altro canto, se hai gestito bene i social e la tua azienda ti vuole mandare via, se hai fatto bene il tuo branding avrai grossi vantaggi”,conclude Leone.

Una visione simile arriva da Losito: “Ho letto di recente in un articolo di Raffaele Gaito che il valore di un professionista sui social e sugli old media dipende da tre fattori: informare, intrattenere ed ispirare. Penso che si debba partire da qui, dai contenuti che si pubblicano sui vari canali: se questi contenuti informano e ispirano allora il personal branding è un’automatica conseguenza. Se invece parto dal personal branding, rischio di mandare messaggi narcisisti. Essere autentici e diffondere contenuti di valore è l’unico modo, a mio avviso, per rafforzare la propria reputazione”, conclude Losito.

Il tema social è preponderante anche per Vigini, soprattutto l’aspetto vitale di generare contenuti per valorizzare il proprio profilo professionale. “Per essere dei validi professionisti ognuno di noi ha bisogno di una terza gamba, ormai necessaria per rendere visibile e competitivo il proprio profilo. In un’epoca rivoluzionata dai social, curare costantemente il proprio personal branding, identificando in modo chiaro i propri punti di forza, quello che ci rende unici e differenti rispetto ai concorrenti, i benefici che si portano e perché altri dovrebbero sceglierci è diventato un elemento essenziale, un vero asset strategico ormai imprescindibile. Il branding si basa sulla capacità di produrre contenuti e idee e di diffonderli sfruttando i meccanismi della rete, on line e off line e grazie alla ‘democrazia’ della rete ognuno oggi ha a disponiblità mezzi che fino a pochi anni fa non aveva: chi riesce a creare e condividere materiali validi e interessanti ha tutto ciò che serve per essere visibile e apprezzato dalla rete. Oggi, vado ripetendo nei miei corsi, non esiste un brand del singolo senza la capacità di generare un’influence, senza la capacità di aggregare o aggregarsi intorno ad una community. Non tutti i professionisti sembrano aver compreso l’importanza di questo aspetto: penso che prima ci dotiamo di questa metacompetenza meno corriamo il rischio di incorrere nel peggior nemico di noi stessi che è l’autopromozione. Cosa fare allora: si tratta di costruire un progetto editoriale personale e professionale che ci guidi nell’utilizzo attivo, continuativo e organizzato di LinkedIn e dei social senza rinnegare l’analogico. In pillole vuole dire: definire i contenuti da pubblicare e relativo calendario, attivarsi con iniziative, documentare ogni attività svolta, coinvolgere il nostro network nella produzione dei contenuti (che diventano i nostri ambassador) e infine mantenere un’elevata frequenza e continuità di messaggi senza diventare né spammer né stalker. Senza rinunciare all’analogico ma integrandolo con l’on line. Tutto questo si po’ riassumere nel praticare, diffondere e implementare una cultura sana del networking, sia on line che off line”, conclude Vigini.

Il filosofo Jean Jacques Rousseau era solito dire che il lavoro nobilita l’uomo. Poi è morto. In attesa che torni dall’Ade, per darci nuove perle di saggezza, sarebbe opportuno che gli uomini (e le donne, ovvio) di buona volontà cominciassero a nobilitarsi di più facendo tre lavori… prima che sia troppo tardi.

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