Abolire Quota 100 per ristabilire l’equità generazionale è un’illusione

scritto da il 05 Novembre 2019

Quota 100 sì o quota 100 no? Il governo giallorosso si è trovato di fronte a questa domanda quando ha dovuto scrivere la legge di bilancio. Alcuni partiti della maggioranza infatti ritengono che i soldi destinati ai prepensionamenti del 2020 e 2021 possano essere meglio impiegati. Altri, come il Movimento 5 Stelle, sono fortemente contrari (e per questo è probabile che la misura non verrà toccata). Ma è giusto mantenerla? E quanti soldi si libererebbero nel bilancio dello Stato se venisse abolita?

Una misura fallimentare

Tortuga ha più volte preso posizione sull’introduzione di quota 100 nel 2018. I prepensionamenti decisi dal precedente governo hanno gravato ancora una volta sulle nuove generazioni appesantendo una spesa previdenziale già ai primi posti tra i paesi Ocse. Il nostro sistema pensionistico prevede infatti un diretto trasferimento tra generazioni: i giovani lavoratori pagano oggi – attraverso i contributi – le pensioni percepite dai pensionati. Una popolazione che invecchia e una platea di lavoratori in procinto di restringersi sotto i colpi della crisi demografica e della disoccupazione giovanile persistente renderanno sempre più complessa la sostenibilità del sistema previdenziale. La spesa che lo Stato impiegherà per pagare le pensioni inciderà sempre di più sul bilancio pubblico del nostro paese e rischierà di crearvi uno squilibrio controproducente.

Anche dal punto di vista di chi in pensione ci sta per andare, questa misura solleva molti dubbi riguardo la sua equità. Nel tentativo di ridurne il costo infatti, il precedente governo ha deciso di adottare la misura in via sperimentale solo per il triennio 2019-2021. Renderla permanente sarebbe stato economicamente insostenibile: l’età di pensionamento media sarebbe stata una delle più generose tra i paesi avanzati. La natura temporanea della misura però crea disuguaglianze di trattamento troppo marcate tra persone con una carriera lavorativa simile. Facciamo degli esempi. Mario, artigiano che ha oggi 60 anni e 36 di contributi riuscirà ad andare in pensione nel 2021 con quota 100. Giulia invece, artigiana anche lei, di anni ne ha invece 59 e 35 di contributi. Lei nel 2021 non avrà maturato i requisiti minimi per quota 100, li maturerebbe nel 2022. Quell’anno però i prepensionamenti scadranno e non verranno rinnovati, anche il nuovo governo lo ha più volte confermato. Giulia potrà andare in pensione solo a 66 anni, nel 2026, sei anni dopo Mario. La disparità di trattamento è palese.

Il governo precedente aveva giustificato quota 100 sostenendo che i pensionamenti avrebbero assicurato nuovi posti di lavoro per i giovani. Questa ipotesi era però già stata ampiamente confutata dalla comunità scientifica. Al momento non sono disponibili dati sui flussi in entrata e in uscita dal mercato del lavoro per accertare se la sostituzione tra giovani e anziani sia avvenuta o meno. È però possibile confrontare la stima del numero di persone che sono andate in pensione tra la prima finestra di aprile e agosto (ultimo dato disponibile sugli occupati) e la variazione degli occupati tra i 15 e i 34 anni in questi mesi. Sarebbero oltre 60mila le persone che avrebbero usufruito di quota 100 secondo il rapporto annuale dell’Inps, ma gli occupati tra i giovani sono nel frattempo diminuiti di oltre 20mila unità. Sicuramente sono molti i motivi che spiegano questo andamento, ma una delle probabili ragioni è che – come ci si poteva attendere leggendo gli studi scientifici in materia – facilitare l’uscita dal mercato del lavoro da parte dei pensionati non crea opportunità di lavoro per i giovani.

Abolirla, quindi?

Come sappiamo, l’adesione a quota 100 è stata di gran lunga inferiore alle aspettative, traducendosi in un risparmio per le casse dello Stato. Su questo risparmio però il governo non ha alcun controllo: aver maturato i requisiti infatti (almeno 62 anni di età e 38 di contributi) consente completa libertà di esercitare l’opzione di andare in pensione quando lo si ritiene opportuno, in qualsiasi finestra futura.

L’unica possibilità di intervenire quindi con la legge di bilancio 2020 sarebbe quindi la revoca della possibilità di anticipare la pensione per chi raggiungerà i requisiti nel 2020 e nel 2021. Ma non è così semplice. Alcuni di questi potenziali beneficiari peraltro hanno già inviato domanda all’Inps per accedere al prepensionamento e in molti casi la domanda è verosimilmente già stata accettata. È difficile immaginare di poter intervenire su persone che hanno già di fatto ottenuto il diritto di andare in pensione. Un ulteriore potenziale problema potrebbe nascere nel caso le aziende abbiano già deciso di offrire scivoli ai dipendenti fino al raggiungimento dei requisiti chiesti da quota 100. Se fosse cosi ci ritroveremmo nuovamente ad affrontare il problema degli esodati.

I conti in tasca dello Stato

In molti hanno parlato di un risparmio per lo Stato superiore agli 8 miliardi annui sia per il 2020 che per il 2021. Questi ordini di grandezza si riveleranno però completamente irragionevoli alla prova dei fatti, pur considerando la grande incertezza intorno al numero finale di domande.

Il numero di pensionati aggiuntivi con quota 100 nel prossimo biennio dipende da due fattori:

1. Il numero di persone che raggiungono i requisiti e che decidono di inviare domanda di pensionamento;

2. Il numero di persone che l’anno prima avevano avuto accesso a quota 100, ma che raggiungono ormai i requisiti per il pensionamento anche con i classici canali di pensione anticipata o di vecchiaia. Dalla maturazione dei requisiti di pensionamento in vigore fino allo scorso anno, il pensionato in questione non rientra più tra i costi di quota 100.

La differenza tra questi due gruppi determinerà il numero aggiuntivo di persone che andranno in pensione con quota 100. La relazione tecnica stimava un aumento di pensionati per l’anno prossimo di 34mila individui, ma non chiarisce quanti siano gli individui appartenenti al primo gruppo e quanti al secondo. Per questo motivo è complesso stabilire quanti potrebbero essere i risparmi per le casse dello Stato utilizzabili già in questa legge di bilancio, ma dalle nostre simulazioni sembra difficile che si possa superare il miliardo di euro per il prossimo anno.

Meglio prevenire che curare

È perciò evidente che non si può abolire quota 100 con lo scopo di reperire risorse economiche. Se così fosse, il governo si troverebbe una brutta sorpresa per gli scarsi risparmi. Gran parte del danno alla sostenibilità del sistema previdenziale è infatti irrecuperabile. Peraltro i risparmi da quota 100, allo stato attuale delle cose, non sarebbero strutturali. In circa un lustro le persone che hanno usufruito di questa finestra avrebbero comunque raggiunto i requisiti. Sarebbe quindi comunque impossibile finanziare progetti che incidono strutturalmente sul bilancio dello Stato.

Una delle questioni più preoccupanti è lo scalino di cinque anni tra chi andrà in pensione nel 2021 e chi ci andrà invece nel 2022 (ricordate Giulia e Mario?). Un’ingiustizia che potrebbe portare le categorie colpite a richiedere ulteriori misure temporanee di favore per rendere più morbida la transizione. Se i partiti al governo tra due anni dovessero cedere alle probabili pressioni e decidere che il valore politico di un simile intervento può giustificarne l’adozione, ci ritroveremo nuovamente a discutere ulteriori misure che gravano sul sistema previdenziale. Per prevenirlo, sarebbe quindi auspicabile iniziare la transizione al sistema che tornerà in vigore dal 2022 già con la legge di bilancio di quest’anno. In questa direzione andrebbe una graduale restrizione dei requisiti minimi di anzianità e di vecchiaia già per quest’anno. In alternativa si potrebbe rendere quota 100 strutturale, ma allo stesso tempo prevedere corrispondenti penalizzazioni sui pensionamenti anticipati (oggi insufficienti) in modo da mantenere in equilibrio il sistema previdenziale. Altrimenti ci troveremo da capo nel giro di un paio di anni.

Autore dell’articolo è Andrea Gorga, classe 1993 di Caserta. Laureato all’università di Trento e poi alla Lse, oggi lavora all’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani. Per il think tank Tortuga – tramite il quale pubblica questo contributo – si occupa di finanza pubblica.