Il gran pasticcio Ilva e la politica pizzicata dalla Taranta

scritto da il 09 Novembre 2019

L’autore di questo post è Costantino Ferrara, vice presidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, già giudice onorario del Tribunale di Latina, presidente Associazione magistrati tributari della Provincia di Frosinone –

Pizzicati dalla Taranta. Così devono essersi sentiti gli indiani di Arcelor Mittal dopo essersi imbattuti nel caso Ilva, la nota azienda siderurgica tarantina che non trova pace da decenni. Anche l’ultima cordata, quella appunto della multinazionale Arcelor Mittal, sembra essersi tirata definitivamente indietro, restituendo la patata bollente allo Stato Italiano.

Tanto per renderci conto e inquadrare il problema, va considerato che si tratta della maggiore azienda siderurgica del Paese e quello di Taranto è il più grande stabilimento d’Europa. I dipendenti diretti sono 10.700 (8.200 solo a Taranto), mentre quelli stimati nell’indotto sono intorno ai 3000-3500. Secondo le analisi econometriche che emergono da uno studio di Svimez, la ex Ilva rappresenta l’1,4% del Pil italiano. Da quando l’impianto è stato sequestrato fino ai giorni nostri (2012/2019), sono andati in fumo 23 miliardi di euro di Pil, l’1,35% cumulato della ricchezza nazionale. Da questo studio, effettuato per il Sole 24 Ore, è emerso che “l’impatto sul Pil nazionale è pari ogni anno, fra il 2013 e il 2018, a una perdita secca compresa fra i 3 e i 4 miliardi di euro, circa due decimi di punto di ricchezza nazionale.

Insomma, si tratta concretamente di un pezzo d’Italia, non di un’azienda qualunque.

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Ricostruiamo brevemente la storia dell’Ilva, per comprenderne meglio gli sviluppi. Il tutto nasce con la Italsider di Taranto, acciaieria di proprietà pubblica nata nel luglio del 1960. Segnata da una grave crisi negli anni Ottanta, l’acciaieria viene acquisita nel maggio del 1995 dal gruppo Riva e assume il nome attuale di Ilva (dal nome latino dell’isola d’Elba, dove veniva estratto il ferro che alimentava gli altiforni soprattutto a inizio Ottocento). I Riva, chiamati a rilanciare l’azienda, si scontrano con i primi problemi seri di inquinamento della città collegati alla sua area industriale e il numero dei decessi per tumore registrati nella zona. Nel 2012 la magistratura tarantina dispone il sequestro dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali. Il gip scrive che l’impianto è stato di “malattia e morte” perché “chi gestiva l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto.

Dopo un maxi-sequestro da 8 miliardi di euro sui beni e sui conti del gruppo, i Riva lasciano il consiglio di amministrazione dell’azienda, dando vita al commissariamento dell’azienda, che passa sotto le mani di diversi commissari.

Nel gennaio 2016 viene pubblicato il bando di gara con l’invito a manifestare interesse per Ilva e i Commissari straordinari scelgono la cordata guidata da ArcelorMittal, nel cui piano sono chiesti 6mila esuberi a fine piano, con l’indignazione dei sindacati.

I problemi gravi, però, iniziano col Governo Conte (il primo), con Luigi Di Maio che chiede all’Autorità nazionale anti-corruzione di indagare sulle regolarità della procedura di gara. L’autorità guidata da Raffaele Cantone risponde che esistono criticità nell’iter della gara per la cessione dell’Ilva.

A inizio novembre 2019 Arcelor Mittal, dopo lungo tira e molla con il governo annuncia in una lettera la volontà di lasciare lo stabilimento e restituirlo allo Stato italiano: tra le ragioni della decisione pesano soprattutto il ritiro dello scudo penale e le decisioni dei giudici tarantini che, secondo l’azienda, “renderebbe impossibile attuare il suo piano industriale”.

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Gli accordi sulla realizzazione del piano industriale e ambientale prevedevano infatti uno scudo penale per gli amministratori dell’azienda. Una tutela messa in discussione dal governo giallo-verde, poi confermata (anche se in forma ridimensionata) dallo stesso esecutivo e infine cancellata con un voto al Senato dell’attuale maggioranza giallo-rossa. Arcelor Mittal ritiene la conferma dello scudo dirimente per proseguire nei piani. A determinare il dietro front dell’azienda, poi, anche la prossima chiusura (13 dicembre) di uno degli altiforni di Taranto, imposta dalla magistratura in mancanza di una sua messa a norma.

A prescindere dal colore di appartenenza, il caso dell’Ilva mette in evidenza gli effetti disastrosi della discontinuità politica che viviamo nel nostro Paese. Chi arriva, pensa prima a disfare quello che ha fatto il suo predecessore e, nell’attesa di fare verosimilmente qualcosa, è possibile che si sia verificata una nuova alternanza al potere. È la politica del distruggere, più che del costruire.

Chi ne paga le conseguenze? Ovvio, i cittadini. In questo caso, gli operai e più in generale i 15 mila posti di lavoro in bilico.

Qualcuno ha parlato, a mio avviso correttamente, di “Stato masochista”, prendendo il caso Ilva come emblema del rapporto tra istituzioni e imprese e di come le prime possano condizionare il cammino delle seconde. Intendiamoci, la salute dei cittadini va salvaguardata, così come non è corretto fare “sconti” e condizioni particolari a imprenditori che intendono speculare sulle crisi.

Quel che difetta, tuttavia, indipendentemente dalle scelte, è la gestione “isterica” del caso, con dietro front continui rispetto agli accordi trovati in precedenza.

In che modo si può pensare di attirare investimenti in Italia, sia provenienti dall’estero, sia impiegando capitali interni? Quale matto si metterebbe in testa di avviare un’iniziativa, con il rischio che le istituzioni, prive di un’identità e di una logica, possano comprometterla con le loro scelte isteriche?

E allora, più che gli indiani, è la politica italiana che sembra esser stata pizzicata dalla Taranta.

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