Milano vs Resto d’Italia: è il Sud che ruba al Nord o avviene il contrario?

scritto da il 13 Novembre 2019

Le parole su Milano del ministro Giuseppe Provenzano sono state un po’ strumentalizzate, come sempre accade quando si solleticano i vari campanilismi che interessano il nostro Paese. Lo stesso ministro ha poi corretto il tiro in un post su Facebook, scritto a mente fredda.

Ma se la polemica è abbastanza stantia, la questione sottesa non è irrilevante. Essa  potrebbe interessare diversi tipi di dualismi, come quello tra metropoli e provincia ad esempio. Ma nel caso italiano i divari più significativi restano quelli regionali o per macroaree. Milano è sicuramente in forte ascesa come città, ma è anche il centro di un sistema industriale avanzato e inserito nelle catene globali del valore.

Piuttosto che soffermarsi sul ruolo -limitato- che una singola città può avere a livello nazionale, se non quello di fungere da esempio come correttamente scritto da Massimo Famularo, l’occasione appare propizia per riflettere sui divari infranazionali, tra le principali fonti di polemiche interne nel dibattito mediatico e politico. Perché in fin dei conti, da 158 anni, si finisce nel solito vicolo cieco: è il Sud che ruba al Nord o avviene il contrario?

La domanda riguarda due principali temi. usati dalle opposte fazioni. Da un lato il Nord che reclama lo “scippo” di risorse economiche, dall’altro il Mezzogiorno che lamenta il drenaggio di capitale umano. Entrambe le tesi sono suffragate dai dati, ma presentano alcune distorsioni da un punto di vista del rapporto causa-effetto.

Partiamo dal primo punto. Per provare ad elaborare alcune riflessioni, possiamo utilizzare la recente pubblicazione della Banca d’Italia sulle economie regionali.

Iniziamo con le istanze del Settentrione. Veniamo da anni in cui alcune regioni del Nord, Veneto in particolare, seguito da Lombardia ed Emilia-Romagna, chiedono nuove forme di autonomia differenziata. A prescindere dal merito della riforma (in aggiornamento e già trattato spesso su Econopoly), la movimentazione politica muoveva dalla retorica sul cosiddetto residuo fiscale (stima, a livello locale, di un ipotetico saldo fra le spese e le entrate del bilancio pubblico).

Nel citato rapporto si legge a tal proposito che «(…) nel 2017 (ultimo anno per il quale è possibile effettuare la ricostruzione) il bilancio pubblico avrebbe erogato risorse nette pari all’incirca al 3,6 per cento del PIL nazionale alle regioni meridionali, contro un prelievo netto pari al 5,6 per cento in quelle del Centro Nord (corrispondenti a circa il 16 e il 7 per cento del PIL delle rispettive macroaree e a 2.900 e 2.400 euro in termini pro capite)».

Se andiamo a vedere le tabelle, in percentuale al PIL nazionale, la Lombardia è nettamente la regione con il residuo fiscale più alto  

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Ecco la situazione a livello pro-capite.

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Quindi, è vero che la Lombardia ad esempio -e in particolare il suo capoluogo- dà tanto al resto del Paese, ma occorre chiarire due un aspetto fondamentale, che rappresenta un equivoco nella battaglia politica degli autonomisti. La forma di redistribuzione principale del nostro sistema è la progressività delle imposte sulle persone fisiche, con la quale si finanziano poi i vari servizi dello stato sociale. I trasferimenti, pertanto, non viaggiano da un territorio a un altro, ma dai “ricchi” ai “poveri” per capirci. Il fatto che sia più abituale che il ricco abiti a Nord piuttosto che a Sud, rappresenta un dato che non muta il principio costituzionale di base, che garantisce alcuni diritti a prescindere dalla residenza.

Se così non fosse, finiremmo nel paradosso di una Milano che potrebbe rivendicare il residuo fiscale positivo nei confronti del resto della Lombardia. Si tratta di un principio insuperabile, a meno di secessione.

Chiarito quanto sopra, passiamo alle tipiche istanze meridionali, che -in tema di risorse- lamentano una spesa pubblica pro capite, corrente e in conto capitale, inferiore a quella del Nord. Secondo il rapporto di cui sopra, «In termini pro capite tale spesa è valutabile in circa 10.600 euro per un cittadino residente nelle regioni meridionali, a fronte di 12.000 euro per un residente al Centro Nord». Ma come precisa lo studio la differenza è dovuta principalmente alla componente pensionistica, sebbene restino carenze sul lato dei livelli essenziali delle prestazioni. Anche per le spese in conto capitale il Sud appare sfavorito a livello pro capite, ma in misura minore.

Da qui si potrebbe evincere la figura di un Nord ladrone? La Storia d’Italia suggerisce di no. Semplicemente perché non è tutto riconducibile ad una questione di quantum, ma anche di qualità della spesa pubblica. Inebriati dalle varie teorie sul famigerato moltiplicatore, sono in molti (non solo al Sud naturalmente) ad immaginare virtù miracolose della spesa stessa, salvo poi scontrarsi con una realtà differente. I risultati sono sotto i nostri occhi, ma non vogliamo levare le fette di prosciutto. La Banca d’Italia ci dà un suggerimento sul perché innanzitutto il miracolo non avvenga.

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Inoltre, il Mezzogiorno ha un rapporto ancor più controverso con la spesa pubblica, perché la stessa è molto alta se rapportata al PIL dell’area. Questo ha inevitabilmente prodotto forme di assuefazione, spesso sfociate in richieste di assistenzialismo. Ma nonostante questo ci si ostina a ritenere l’intervento dall’alto come possibile panacea, dimenticandosi che la spesa viene poi sistematicamente dirottata al sostegno dei redditi piuttosto che ad investimenti produttivi. Con una torta sempre più piccola da dividere.

Ciò non significa che il sistema di finanziamento degli enti locali non debba essere corretto nelle sue distorsioni ed inefficienze, ma appare del tutto utopistico sovrastimare gli effetti sullo sviluppo derivanti da un’eventuale aumento delle risorse pubbliche a disposizione.

In definitiva sul punto delle risorse economiche, entrambi gli schieramenti appaiono vittime di alcune informazioni fuorvianti e di illusioni di lunga data. A livello di effetti però, le illusioni sono più pericolose per il Mezzogiorno, che sembra non voler imparare le lezioni che la sua storia gli impartisce.

In merito alla seconda questione, relativa all’emigrazione ed al drenaggio di capitale umano, mi scuso per l’autocitazione, ma posso aggiungere ben poco rispetto a quanto scritto qualche mese fa su questi pixel. Oltre a riflettere amaramente su come questo Paese faccia così fatica a comprendere le ragioni dei ragazzi che emigrano dal Mezzogiorno al Centro-Nord o dall’Italia all’estero, mi unisco alla provocazione di Massimo Famularo rivolta al Ministro. Si chiede perché Milano non formi classe dirigente come un tempo,  ma il Ministro farebbe bene a guardarsi intorno, anche all’interno dell’Esecutivo di cui fa parte. Vede meritocrazia intorno a sé? Nella politica? O nei principali incarichi a nomina pubblica?

Forse è per questo che le menti migliori scelgono un’altra via, che ad alcuni potrà apparire egoistica nei confronti del Paese, ma che spesso altro non è che una normale e sana ambizione di raggiungere traguardi che siano in linea con gli sforzi e le fatiche di una vita.

E su questo non deve riflettere solo Milano, che sembra peraltro aver capito il trend imposto dai nostri tempi, ma il resto d’Italia.

Twitter @frabruno88