Perché il vecchio Mose (quello con l’accento) sarebbe stato più efficiente

scritto da il 27 Novembre 2019

L’autore di questo post è Costantino Ferrara, vice presidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, già giudice onorario del Tribunale di Latina, presidente Associazione magistrati tributari della Provincia di Frosinone –

E fu così che Mosè, su indicazione del Divino, alzò il suo bastone e squarciò le acque, liberando il popolo ebraico dal problema del mare, che in quel momento costituiva un ostacolo per la fuga dagli inseguitori egiziani.

A distanza di qualche millennio, troviamo un altro popolo altrettanto storico (il popolo veneziano), un altro Mose (senza l’accento), e un analogo problema con l’acqua: il progresso, tuttavia, non ha retto il passo col Divino, e l’acqua questa volta ha vinto. E certo, direbbe il progresso, qualora interpellato: il Divino non doveva vedersela con le vischiosità della burocrazia, della politica, del malaffare, che avrebbero bloccato persino il Mosè originale, probabilmente.

Stiamo parlando, non è difficile immaginarlo, dei recenti fatti accaduti a Venezia.
Il Mose (acronimo che sta per MOdulo Sperimentale Elettromeccanico) è un’opera ingegneristica concepita per difendere la città di Venezia e la sua laguna dal pericolo di acque alte e allagamenti. In particolare, le barriere del Mose sono costituite da schiere di paratoie, installate nel fondale delle bocche di porto, che consentono di separare temporaneamente la laguna dal mare quando è previsto un evento di acqua alta.

La nascita concettuale dell’opera risale addirittura all’alluvione del ’66, che colpì profondamente la laguna, così da far percepire come un’esigenza prima di tutto nazionale quella di difendere la città e i suoi dintorni dal pericolo di allagamento. L’iter, dal concepimento alla sua realizzazione, è stato molto tormentato (a dir poco), tant’è che i lavori sono poi iniziati concretamente soltanto nel 2003.

Nel giugno del 2014, nell’ambito di un’inchiesta anticorruzione, sono state arrestate 35 persone (e indagate altre 100), tra personaggi politici di primo piano e funzionari pubblici, per reati quali creazione di fondi neri, tangenti e false fatturazioni.

A seguito di queste vicende giudiziarie, lo Stato è intervenuto al fine di assicurare il proseguimento dei lavori e la conclusione dell’opera, con l’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) che ha proposto la gestione straordinaria del consorzio, cui ha fatto seguito la nomina di tre amministratori straordinari.

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Le immagini di questi giorni, lasciano immaginare quale sia lo stato dell’arte: nonostante la gestione straordinaria, e nonostante il fatto che siano passati oltre 16 anni dall’avvio del cantiere, il Mose è ancora incompleto. E, infatti, Venezia è stata invasa ancora una volta dalle acque, con danni incalcolabili.

C’è da dire che il caso è stato eccezionale, poiché le previsioni sono state sovvertite all’improvviso e la marea così alta non era attesa. Ma è lecito chiedersi, se il Mose fosse stato in funzione, avrebbe risparmiato l’ultima “apocalisse” su Venezia? Per la risposta ci affidiamo a Luigi D’Alpaos, professore emerito dell’Icea, acronimo di Ingegneria Civile Edile Ambientale dell’Università degli studi di Padova, la massima autorità in materia di ingegneria idraulica, da diversi anni autore di molti studi, ricerche e pubblicazioni sulla laguna di Venezia: “Nei giorni scorsi il cambiamento del vento sulla laguna, a Mose funzionante, sarebbe stato un imprevisto rispetto alla previsione. Però va anche detto che in questo caso se, per ipotesi, avessero chiuso le paratie del Mose i danni che poi si sono registrati non ci sarebbero stati”.
Senza scendere troppo nel tecnicismo, affidiamoci a questa esaustiva e sintetica conclusione: se il Mose avesse funzionato, l’apocalisse sarebbe stata evitata.

Il punto è che l’incompiutezza del Mose segue di pari passo la sorte delle altre Grandi Opere, su cui il dibattito, il litigio, l’alternanza politica e la differenza di vedute tra le varie correnti che si succedono al Governo prendono il sopravvento: così che le opere rimangono incompiute (o vengono terminate in tempi biblici) con sperpero incredibile delle risorse impiegate fino a quel momento.

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Sono passati 16 anni dalla posa della prima pietra e il Mose è ancora lì ed è il simbolo di un’Italia in ginocchio senza visione del futuro tra tangenti e arresti, che ha sperperato 6 miliardi di euro. Ora, a prescindere se sia una cosa giusta o sbagliata, il Mose così come la Tav, o perché no anche lo scudo penale per i dirigenti dell’Ilva, il trait d’union tra tutte queste situazioni è l’effetto disastroso e catastrofico che la discontinuità politica genera a nostro danno. Distruggere, prima ancora che costruire. L’esigenza di chi arriva, è sconfessare quanto fatto dai predecessori, tornare indietro, rimangiarsi la parola data da chi c’era prima, ripartire ogni volta da zero. Atteggiamento che affonda le proprie radici nel dover dimostrare che la situazione “ereditata” dall’uscente direttivo è un disastro, che è necessario rammendare i buchi lasciati aperti, per salvare il Paese dal baratro.

In questo modo, è evidente, non si costruisce nulla, il futuro diventa come la tela di Penelope, di giorno si tesse, di notte si sfascia, per esser sempre allo stesso punto. Nel Mose come in altri settori, profondamente diversi, quale ad esempio la politica fiscale.

Il governo M5S – Lega introdusse, circa un anno fa, un’estensione del regime dei forfettari, permettendo alle partite Iva con fatturato fino a 65 mila euro di avere una serie di facilitazioni. Cosa fa il direttivo successivo? Ad appena un anno dall’entrata in vigore, sfascia tutto e riscrive nuove regole per le partite Iva, prevedendo un incremento degli adempimenti ed una stretta sulle condizioni di accesso e permanenza (si pensi al divieto di essere forfettari in caso di redditi da lavoro dipendente o pensione oltre una certa soglia). In che modo si può pensare di “programmare” un’attività imprenditoriale o di lavoro autonomo, se le regole stabilite durano un anno per poi cambiare completamente?

Tornando agli ebrei e a Mosè, per fortuna il problema della discontinuità non esisteva. Altrimenti, una volta squarciato il mare, immaginiamoci cosa sarebbe potuto succedere se a metà del guado, il “direttivo” avesse cambiato idea: “Non è corretto che sollevando un bastone si alzino le acque, decisione annullata!”. Così che il mare, tornando sui suoi passi, avrebbe annegato il popolo ebraico, in pieno attraversamento del Mar Rosso. Per fortuna, non è andata così. Mosè era più efficiente del Mose: forse perché, di base, aveva un direttivo migliore.

APPROFONDIMENTI:

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