L’Ue delle regole severissime accetta due paradisi fiscali tra i suoi fondatori

scritto da il 03 Dicembre 2019

Una ricchezza finanziaria privata che oscilla tra i 21 e i 32 trilioni di dollari sarebbe custodita nelle giurisdizioni segrete e sapientemente sottratta al fisco; ogni anno, il flusso finanziario transfrontaliero si aggira tra 1 e 1,6 miliardi di dollari; dall’inizio degli anni ’70, invece, i paesi africani, a causa degli espedienti di evasione ed elusione, avrebbero perduto 1 trilione di dollari circa. Questi ‘numeri’, qui presentati in ordine sparso, provengono dalle indagini svolte da Tax Justice Network, una rete internazionale indipendente, nata nel 2003 e dedita esclusivamente allo studio e al contrasto del fenomeno.

Di là dalle suggestioni negative e dallo sconforto, bisogna cominciare a parlare dell’esistenza di un vero e proprio mondo parallelo, alimentato, sì, da forme più o meno note di complicità giuridico-sociale, ma, nello stesso tempo, autonomo, irraggiungibile e quasi inenarrabile. Se ne parla e se ne traggono liste nere, laddove restano immutate e ingestibili la dicotomia e l’assenza di un collegamento, come se la vicenda fosse una sorta di saga del maligno. Ronen Palan, che insegna Politica Internazionale alla City University di Londra, in un’opera del 2010, Tax Havens: How Globalization Really Works, ha parlato addirittura di “turisti permanenti”, cioè di un gruppo di multimilionari che, serviti da una turba indefinibile di consulenti, banchieri e legali, si contraddistingue per il nomadismo fiscale, spostandosi continuamente da un paradiso fiscale all’altro al solo scopo di sfuggire all’esazione delle imposte.

L’OXFAM, in un rapporto del 2016, ha accertato che molte imprese, pur ricevendo prestiti dalla Banca Mondiale unicamente per investire nella regione subsahariana, da ultimo, ricorrono ai paradisi fiscali. Il loro numero è spaventoso: 51 su 58; la qual cosa genera, anzitutto, già in principio, una contraddizione umana, oltre che ‘istituzionale’ – per non dire prudenziale e morale. Le multinazionali, ogni anno, portano via – materialmente – dai paesi in via di sviluppo un gettito pari a circa 100 miliardi di dollari, tanto che s’è calcolato che, facendo la differenza tra ciò che all’Africa viene rubato e il debito africano verso i prestatori internazionali multilaterali, l’Africa avrebbe solamente crediti.

Lo stesso FMI ha confermato, nel 2015, che, in fatto di evasione ed elusione, i paesi in via di sviluppo perdono almeno un 30% in più rispetto ai paesi ricchi, sebbene il problema sia universale. Di fatto, negli ultimi anni, si documentato un certo recupero erariale, per così dire: lo si apprende da un report del 2016 in cui l’OCSE ha monitorato il flusso tributario di Marocco, Tunisia, Mauritania, Senegal, Sudafrica, Costa d’Avorio e Ruanda e Camerun. Non a caso, però, il paese più povero e con un reddito pro capite più basso ha fatto registrare il recupero minore, a testimonianza del fatto che domina una componente di sfruttamento: il Ruanda col 16,1%, a fronte del 31,3% della Tunisia.

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È evidente che il problema non investe solamente i paesi in via di sviluppo. Lo stesso Tax Justice Network denuncia che paesi come la Grecia, l’Italia e il Portogallo sono stati messi in ginocchio da decenni di evasione ed elusione mediante il meccanismo dell’offshore. In particolare, il loro redattore parla di “saccheggio” e, a tal proposito, usa il termine “looting”. La questione linguistica non è di secondaria importanza, come sulle prime potrebbe sembrare. Non a caso, sul sito dell’organizzazione appena citata, si legge “Secrecy jurisdictions, a term we often use as an alternative to the more widely used term tax havens”: “giurisdizioni segrete, un termine che spesso usiamo come alternativa al più ampiamente usato paradisi fiscali”. La sostituzione, in effetti, non è solo una variante stilistico-formale né genera un lessico peregrino; essa è, al contrario, una necessità semantica, dato che ci si riferisce non solo a dei luoghi fisici della fuga fiscale, ma anche e soprattutto a un esercito di persone, fisiche e giuridiche, che concorrono costantemente a proteggere e rendere quasi invulnerabili e inaccessibili certi sistemi.

Il nucleo della polizia tributaria della Guardia di Finanza, in seguito a una verifica fiscale, ha accertato che Google, nel nostro paese, dal 2009 al 2013, si è reso responsabile di frode fiscale: omessa dichiarazione Ires per circa 800 milioni di euro, ridotti a 227 con un accordo. In pratica, le entrate pubblicitarie realizzate sul territorio italiano sono state contabilizzate in Irlanda e alle Bermuda, passando per l’Olanda. Qualcosa di simile è accaduto, nello stesso periodo (2008-2013) con Apple, che, sempre per omessa dichiarazione Ires, ha sottratto al fisco italiano più di 800 milioni di euro: l’accordo cui si è giunti ha ridotto la cifra a 318 milioni. Lo schema, in quasi tutte le circostanze, è, grosso modo, la risultanza di una triangolazione grazie alla quale si erode in modo significativo la base imponibile: la sede aziendale nel paese A paga una certa somma nel paese B nel rispetto di una serie di royalties (brevetti, marchi, know-how et cetera) e, nello stesso tempo, acquista il prodotto in un paese C. Talora, naturalmente, lo schema si complica e le trame s’infittiscono. Il colosso di Mountain View, per esempio, nel 2014, dirottò verso le Bermuda all’incirca 10 miliardi di dollari e non si limitò a una semplice triangolazione.

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Molto probabilmente, le black list e gli accordi sullo scambio d’informazioni non sono più sufficienti o, diversamente, contengono solo una portata simbolica, specie se consideriamo che due dei paesi fondatori dell’Unione Europea come Olanda (come membro dei Paesi Bassi) e Lussemburgo sono i regni del segreto finanziario e dei sistemi di elusione fiscale.

Tax Justice Network stima che in Olanda possano esistere addirittura più di 10.000 istituzioni finanziarie utilizzate per far transitare in modo occulto ogni anno parecchi miliardi di euro. Il Granducato di Lussemburgo, un paese di poco più di seicentomila abitanti e la cui estensione non supera i duemila e cinquecento chilometri quadrati, accoglie nel proprio territorio circa 110 banche, le quali hanno attivi per quasi 1 miliardo di euro, la metà dei quali è nelle mani dei privati.

Secondo dati forniti dalla stessa Association of the Luxembourg Fund Industry, in Lussemburgo hanno sede 3.900 fondi con un patrimonio di oltre 3.000 miliardi di euro: si tratta, in sostanza, del leader europeo e del secondo paese al mondo – dopo gli Stati Uniti – per domicilio di fondi d’investimento. In Belgio, altro paese fondatore, il regime tributario dei “benefici straordinari”, che ha favorito impunemente parecchie multinazionali è stato giudicato addirittura illegale rispetto alle leggi dell’UE; il che è strano, paradossale, quasi grottesco, dal momento che Bruxelles è da tempo considerata la capitale dell’Unione ed è universalmente noto che la Commissione, il Consiglio dell’Unione e parte del Parlamento europeo vi hanno sede.

Proprio a Bruxelles, il 27 maggio del 2015 la Svizzera e l’Unione Europea hanno firmato un Accordo bilaterale sullo scambio automatico d’informazioni a fini fiscali secondo gli standard indicati dall’OCSE. Pochi mesi dopo, esattamente il 20 ottobre 2015, un Accordo simile è stato raggiunto e sottoscritto da UE e Liechtenstein. Se tuttavia consultiamo il Financial Secrecy Index 2018 elaborato da TJN, troviamo ancora la Svizzera in cima alla classifica e se, a questo punto, non ci sorprendiamo di trovare il Lussemburgo in sesta posizione e l’Olanda in quattordicesima posizione, lo stesso non può dirsi per la ‘performante’ Germania, che conquista un ‘autorevole’ settimo posto.

Tax Justice Network

Tax Justice Network

È molto interessante notare, a tal proposito, la giustapposizione tra i luoghi in cui certi flussi finanziari sono oggettivamente consentiti e i luoghi in cui si ritiene che la corruzione quasi non esista: 8 paesi su 20 appartenenti alla classifica del Financial Secrecy Index sono ‘assolti’ dalla percezione che se ne ha; la qual cosa ci fa comprendere quanto possa essere ancora ambigua e del tutto inadeguata e, soprattutto, inefficace l’interpretazione del fenomeno. Un lavoro congiunto dell’OCSE e del G20, nel luglio del 2013, ha portato alla realizzazione del BEPS (Base Erosion and Profit Shifting erosione della base imponibile e trasferimento degli utili), un progetto nato per contrastare proprio il trasferimento degli utili nei cosiddetti paradisi fiscali o la stessa nuda e cruda evasione fiscale.

In materia di BEPS, sul sito del Dipartimento Federale delle Finanze Svizzero, leggiamo quanto segue: “Lo scambio automatico delle rendicontazioni Paese per Paese è inteso a rendere più trasparente l’imposizione delle imprese multinazionali. La pertinente legge e l’accordo multilaterale sono entrati in vigore il 1° dicembre 2017. Nell’anno fiscale 2018 le imprese multinazionali in Svizzera sono quindi obbligate a presentare per la prima volta una rendicontazione Paese per Paese, che la Svizzera scambierà con gli Stati partner dal 2020.”

In pratica, finora, nulla di fatto. Ne riparleremo dopo il 2020 e, giacché ci pare di capire che non esistano misure retroattive, nel frattempo, sarà semplice ricollocare certi flussi rendendoli invisibili anche al BEPS.

Tax Justice Network

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Dall’osservazione della tabella suesposta, tratta sempre da TJN, si ricava ancora una volta l’allarmante differenza dei criteri adottati dai vari organismi internazionali per valutare la scarsa trasparenza finanziaria. In sostanza, come si legge nella fondamentale didascalia, le 10 giurisdizioni il cui indice di segretezza s’è fatto più trasparente sono responsabili di quasi un terzo del segreto finanziario globale e accolgono ancora il 60% del segreto finanziario globale.

La corsa al ribasso della tassazione degli utili d’impresa, che si è materializzata molto di frequente in aliquote prossime allo zero, ha resistito finora a qualsiasi presunto tentativo di contrasto: è naturale che il conseguente ammanco, vale a dire lo scompenso di gettito fiscale, si ribalti giocoforza sulla classe media, che deve far fronte a una pressione fiscale crescente e opprimente, e sulla precarietà dei servizi pubblici offerti dallo Stato.

L’Irlanda, per esempio, è ormai nota per aver concesso a Apple un’aliquota effettiva dello 0,005%, laddove un piccolo imprenditore italiano che fatturi un milione di euro, tra IVA, IRES, INPS, tassa sui rifiuti, IMU et cetera, può vedere il proprio utile ridursi ance al di sotto dei 300.000 euro: sconcertante, se lo si paragona ai 265 miliardi di fatturato dell’azienda di Cupertino e, soprattutto, alla sua capacità di elusione.

Il 12 dicembre 2016, OXFAM Italia, in un dossier intitolato Battaglia Fiscale, ha pubblicato la famigerata black list dei “paradisi fiscali societari più aggressivi al mondo”. Ne riportiamo il contenuto seguendo l’ordine di ‘aggressività’ utilizzato dalla stessa ONG: Bermude, Isole Cayman e Paesi Bassi, Svizzera, Singapore, Irlanda, Lussemburgo, Curaçao, Hong Kong, Cipro, Bahamas, Jersey, Barbados, Mauritius, Isole Vergini britanniche. Ritroviamo, imperturbabili e imperturbate, Svizzera, che l’anno precedente aveva siglato l’accordo con l’UE, l’Olanda, paese fondatore dell’UE, il Lussemburgo, altro paese fondatore e altro firmatario dell’accordo con l’UE.

OXFAM

OXFAM

Nello stesso tempo, non si può far passare sotto silenzio che Bermude e Cayman, in pratica le ‘peggiori della specie’, sono territori inglesi d’oltremare; di conseguenza, in stretta contiguità giuridico-economica col Regno Unito; il che conduce a un’ammorbante complicità o, per lo meno, ci fa dedurre che di ammorbante complicità si debba parlare.

Insomma, vien fatto di pensare che ci sia anche una sorta di schiavitù non dichiarata nei confronti di questo sistema. Per esempio, la stessa Apple dichiara di aver generato lavoro in Europa per 629.000 persone: è ovvio che non si tratta di assunzioni dirette, ma è altrettanto evidente che potrebbe vantare un certo potere ricattatorio sulle varie agenzie di riscossione. In Italia, 1.300 sono i dipendenti diretti e 20.900 i lavoratori indiretti legati al mondo dell’app economy.

In conclusione, dobbiamo raccontare la storiella degli apparati simbolici d’intervento, che sembrano caratterizzarsi come semplici sovrastrutture ideologiche, o ci è lecito dire che il problema attualmente appare inestricabile?

Twitter @FscoMer

PER APPROFONDIRE, le inchieste di Fiume di Denaro / Il Sole 24 Ore:

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