Covid-19, l’uomo c’entra davvero qualcosa con questa epidemia?

scritto da il 29 Marzo 2020

L’autore del post è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) –

Circola con sempre maggior insistenza la tesi secondo cui anche nell’epidemia di Covid-19 ci sia lo zampino dell’uomo, come nel caso del Cambiamento Climatico.

L’autorevole ricercatore e divulgatore Mario Tozzi, per esempio, ha pubblicato un articolo dal titolo eloquente: “i danni all’ambiente fanno esplodere i virus”.

A stretto giro, il WWF ha rilasciato un report in cui suffraga questa tesi: “Esiste un legame strettissimo tra le malattie che stanno terrorizzando il Pianeta e le dimensioni epocali della perdita di natura”.

Da ultimo, David Quammen, autore del bestseller Spillover, ampiamente citato sia nell’articolo di Tozzi sia nel report del WWF, ha rilasciato una serie di interviste in cui, in sostanza, ammonisce l’opinione pubblica: “Dobbiamo capire che ogni volta che disturbiamo un ecosistema ci sono conseguenze” [1].

La teoria, per quanto affascinante, non trova però alcun riscontro nei dati che, anzi, dimostrano l’esatto contrario.

Non è vero, come scrive Tozzi, che “i nomadi cacciatori-raccoglitori, ovviamente, si ammalavano molto meno dei cittadini agricoltori e non sviluppavano certo epidemie”. Anzi, l’aspettativa di vita alla nascita era poco più di 20 anni proprio a causa delle malattie infettive. E sostenere il contrario vuol dire alimentare un mito estremamente pericoloso, quell’humus antiscientifico secondo cui la modernità ci ha indebolito e per proteggersi dal morbillo bisogna fare “come facevano i nostri nonni”, invece che vaccinarsi.

% di decessi legati a malattie infettive in 5 popolazioni di cacciatori-raccoglitori + media USA (2017)

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Fonte: High adult mortality among Hiwi hunter-gatherers: Implications for human evolution; U.S. Centers for Disease Control and Prevention (CDC)

È difficile prendere alla lettera Quammen quando sostiene che “le nuove infezioni di zoonosi (di origine animale) diventeranno più frequenti e pericolose se la popolazione umana, il consumo e la distruzione degli ecosistemi selvatici continueranno a crescere”. Altrimenti non si spiegherebbe perché a cavallo tra il XIV e il XV secolo, quando la popolazione mondiale era un ventesimo di quella attuale e la superficie forestale molto più estesa di oggi, l’Europa venisse funestata ogni 6/12 anni da terribili epidemie di peste (un’altra malattia che ha fatto il salto di specie, proprio come il Covid-19), mentre oggi affronta la prima, vera, pandemia da oltre un secolo.

E non è vero, come sostengono gli esperti del WWF, che “le pandemie sono un effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi”. Anzi, è facilmente dimostrabile che la distruzione degli ecosistemi ha coinciso con un notevole allungamento dell’aspettativa di vita e, di conseguenza, con un’impressionante crescita della popolazione mondiale.

schermata-2020-03-28-alle-19-33-31schermata-2020-03-28-alle-19-33-48Per essere chiari: storicamente, più aumenta l’impatto ambientale umano sull’ecosistema, più diminuisce l’incidenza delle malattie infettive sulla mortalità umana. Può essere difficile da digerire ma è così.

E anzi: è proprio due secoli fa, quando inizia a imporsi il modello di sviluppo industriale e l’impatto ambientale umano sull’ecosistema inizia ad aumentare vertiginosamente, che l’uomo inizia a liberarsi dallo spettro delle malattie infettive.

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Ed è proprio nell’ultimo secolo, quello in cui si materializza la crisi ambientale, che gran parte delle principali malattie infettive sono state debellate nelle economie avanzate e marginalizzate nei Paesi in via di sviluppo.

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Fonte: Manju Pilania, Epidemiological Transition

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Fonte: Manju Pilania, Epidemiological Transition

Alla luce di queste considerazioni, l’infografica del WWF assume un significato completamente diverso. Tutte e nove le malattie emergenti segnalate nel report, infatti, si sono manifestate in contesti caratterizzati da scarse condizioni igieniche, come gli allevamenti di suini nella regione messicana di Veracruz e i mercati di animali in Cina, oppure in villaggi di alcuni tra i Paesi più poveri del mondo, come l’Uganda e il Congo: in poche parole, in sacche di sottosviluppo economico, sociale e culturale.

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Ed è proprio questo l’aspetto più anti-intuitivo della questione ambientale: il paradigma della crescita infinita ci sta proteggendo dalle malattie, sta allungando la nostra vita rendendola sempre meno dura ma, con gli strumenti attuali, non è sostenibile nel lungo periodo.

Affermare che lo sviluppo di una pandemia sconosciuta come il Covid-19 è correlato all’impatto ambientale umano vuol dire cercare una scorciatoia, disonesta, per portare all’attenzione del pubblico un problema che, però, esiste davvero e rischia di avere conseguenze ben più gravi di questa epidemia.

Ma perché questa semplificazione?

Perché il modello della crescita infinita non significa solamente scarpe sempre più costose e macchine sempre più potenti ma anche farmaci sempre più efficaci e tempi sempre più rapidi per sintetizzare un nuovo vaccino, come ci ricordano questi drammatici giorni.

Certo, è facile argomentare che per mantenere questo ritmo nella nostra corsa verso il progresso non è necessario “pagare i calciatori più dei chirurghi o degli insegnanti” ma rimane il fatto che, almeno per il momento, nessuno è riuscito a elaborare un modello più efficiente nel ridistribuire il benessere e aumentare l’aspettativa di vita. E questo per quell’annosa questione che gli stipendi milionari dei calciatori, solo per voler seguire il ragionamento della Mazzucato, non sono garantiti da un prelievo forzoso dello Stato sui conti bancari dei contribuenti ma sono finanziati dalla libera scelta di milioni di individui che sottoscrivono un abbonamento alla pay-TV, che comprano magliette e accessori o che vanno allo stadio. In poche parole, il cuore del problema non sono i loschi disegni delle multinazionali ma i desideri e l’emotività delle persone, come possiamo constatare anche in questi giorni drammatici.

Per gli appassionati di filosofia politica, siamo ancora alla critica di Gramsci a Marx: ci si ostina a sottovalutare la sovrastruttura, il dato di fatto che gli uomini non sono macchine e non lo diventeranno mai.

La sfida, quindi, non è distruggere il passato ma costruire il futuro: trovare un nuovo percorso senza essere costretti a cambiare, però, la direzione della nostra marcia.

Abbiamo diritto a vivere sempre più a lungo, abbiamo diritto a essere liberi, abbiamo diritto al benessere, abbiamo persino diritto di sognare e di essere emotivi. Chi ci chiede di rinunciare anche solo a uno di questi diritti è un totalitarista, nel senso più letterale del termine.

Twitter @enricomariutti