L’intervento a pelle di leopardo (fiscale) che affossa le imprese

scritto da il 03 Aprile 2020

L’autore di questo post è Costantino Ferrara, vice presidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, già giudice onorario del Tribunale di Latina, presidente Associazione magistrati tributari della Provincia di Frosinone –

Questo si, quello no, quell’altro forse. È il commento che mi viene naturale a pensare alle proroghe – proroghette – ed alle sospensioni di versamenti e adempimenti tributari disposti dall’ormai ben noto Decreto Cura Italia, la prima spugna chiamata ad assorbire l’allagamento da Coronavirus che ha travolto l’economia italiana. L’intervento a macchia di leopardo operato in ambito tributario, sia consentito dirlo, è insoddisfacente, tanto sotto il profilo quantitativo, per l’insufficienza delle misure, quanto sotto quello qualitativo, per la scarsa coordinazione tra le varie disposizioni.

L’analisi quantitativa, ovvero il peso degli aiuti messi in campo, è fin troppo scontata. In lungo e in largo, da ogni lato del Parlamento e del Paese, le voci di dissenso e di malcontento si sono assembrate, per usare un termine di recente, ampia diffusione (ahinoi).

Quel che, tuttavia, desta più scalpore, almeno a parere dello scrivente, è l’asimmetria delle disposizioni che mettono dentro e lasciano fuori cose qua e là, senza alcuna coordinazione, tanto da far sembrare quasi “casuale” la scrittura della norma.

Lampante è l’esempio degli avvisi bonari, o comunicazioni di irregolarità che dir si voglia, lasciati fuori dal Decreto Cura Italia. In altri termini, facendo riferimento all’Iva, se il versamento dell’imposta corrente è sospeso (con ricavi inferiori a 2 milioni di Euro nel 2019), così come sono sospesi i pagamenti delle cartelle di pagamento (per tutti), l’Iva che si sta pagando con rateizzazione di un avviso bonario deve essere, invece, regolarmente versata. Così come quella inclusa in un avviso bonario di recente notifica (dunque non ancora posto in rateazione) che deve essere versata, almeno per la prima rata, entro 30 giorni dalla notifica.

Che senso ha? È privo di logica e non pare esservi altra spiegazione, se non che l’aver lasciato fuori l’avviso bonario dalle sospensioni sia stata una dimenticanza. Ma se fosse l’unica anomalia, va detto, non ci sarebbe da lamentarsi. Ci potrebbe stare, vista l’urgenza e la fretta nel mettere in campo le misure.

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Ma il giudizio si inasprisce, se si guarda alla sospensione dei termini per la proposizione dei ricorsi e delle impugnazioni tributarie, che prevede scadenze diverse per contribuente (più corti) e amministrazione (più lunghi) e non coordina le varie fasi che connotano le procedure (gli accertamenti con adesione in corso, vengono di fatto vanificati dallo sfasamento dei relativi termini di proroga). Dulcis in fundo, a fronte di due mesi di sospensione dell’attività di verifica da parte degli uffici dell’Agenzia delle Entrate, il decreto assegna all’amministrazione finanziaria due anni di tempo in più per emettere gli accertamenti fiscali.

Vediamo quali sono le misure “incriminate”, nello specifico. Per il contribuente, il DL prevede un termine di sospensione che va dall’8 marzo al 15 aprile 2020. Dall’altra parte, invece, ovvero dal lato dell’amministrazione, c’è la sospensione, dall’8 marzo al 31 maggio 2020, dei termini relativi alle attività di liquidazione, di controllo, di accertamento, di riscossione e di contenzioso.

Dunque, pur avendo sospeso le attività di verifica, l’amministrazione ha più tempo per completare le proprie azioni in contenzioso (a conti fatti, un mese e mezzo in più). Ma a prescindere dall’aver concesso un termine più ampio rispetto ai contribuenti, questo sfasamento crea ulteriori problematiche.

Facciamo l’esempio degli accertamenti con adesione in corso, riferendoci a quella fase amministrativa che precede la proposizione del ricorso e in cui contribuente e ufficio cercando di mettersi d’accordo per evitare la lite fiscale.

Da un lato, la norma sospende le attività di contraddittorio con gli uffici, quindi con effetti nell’ambito degli accertamenti con adesione, fino al 31 maggio 2020, e dall’altro fissa la sospensione del termine per proporre i ricorsi al 15 aprile.

Tale circostanza fa sì che il termine di 90 giorni dedicato al contraddittorio con l’Agenzia possa spirare dopo quello per proporre il ricorso, vanificando dunque l’intera procedura.

Ragioniamo su un caso concreto. Avviso di accertamento notificato il 12 novembre 2019. Ci sono 60 giorni per proporre ricorso, che diventano 150 in caso di proposizione di istanza di accertamento con adesione. A cose normali, il termine per il ricorso scadrebbe il 10 aprile 2020 ed entro tale data sarebbe possibile raggiungere l’accordo di adesione con l’Ufficio fiscale. Verosimilmente, gli incontri decisivi per chiudere l’adesione avverrebbero nel mese di marzo 2020. Ma, attenzione, arriva il COVID e le sue sospensioni. Così che il termine per proporre il ricorso diventa il 18 maggio. Il termine per chiudere l’adesione, invece, è successivo alla scadenza per proporre il ricorso e, oltretutto, fino al 31 maggio sono sospesi i contraddittori di adesione. Risultato? L’adesione non può più essere perfezionata, perché il contribuente non rischierà mai di far spirare il termine per proporre ricorso, col pericolo che l’accertamento diventi definitivo nel suo intero e non più contestabile in via giudiziale.
Possibile che chi scrive i decreti non sia a conoscenza di queste situazioni che, invero, sono all’ordine del giorno per qualunque addetto ai lavori?

E non è finita. Il DL, come accennato, ha ampliato di due anni i termini per emettere gli accertamenti. In sostanza, a fronte di una sospensione delle verifiche degli Uffici per due mesi, i contribuenti sono esposti per due anni in più ad un possibile accertamento. Ma quel che lascia perplessi, in tal senso, è una questione “tecnica” sulla quale in pochi si sono soffermati.

La norma richiamata dal DL, che sancisce l’allungamento in parola, è l’articolo 12 del D.lgs. 159/2015, denominata “Sospensione dei termini per eventi eccezionali”, disposizione prevista proprio per far fronte alle calamità naturali (come quella attuale, del resto). Norma accolta con favore di cronaca all’epoca, proprio perché al primo comma prevede una generalizzata sospensione di termini correlata alla sospensione dei versamenti: le disposizioni in materia di sospensione dei termini di versamento dei tributi, dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, a favore dei soggetti interessati da eventi eccezionali, comportano altresì, per un corrispondente periodo di tempo, relativamente alle stesse entrate, la sospensione dei termini previsti per gli adempimenti anche processuali.

Il secondo comma, invece, prevede la proroga biennale dei termini di controllo a favore degli Uffici.

È singolare, però, che il DL abbia recepito il secondo comma dell’articolo 12, disponendo che il citato articolo si applica solo “con riferimento ai termini di prescrizione e decadenza relativi all’attività degli uffici degli enti impositori”, ed ignorando, al contempo, le misure previste dal comma 1 dello stesso articolo 12 (la parte “pro contribuente”).

La norma per gli eventi eccezionali, insomma, già c’era: articolo 12 del D.lgs. 159/2015. E il Governo l’ha anche applicata. Peccato che l’abbia fatto solo parzialmente, ridisegnando (non troppo brillantemente) la parte pro contribuente.

L’intervento appena descritto, che ricalca la pelle del leopardo, a macchie, non può salvare il Paese.

Uno spiraglio c’è. Il prolungarsi dell’emergenza, infatti, creerà forzatamente la necessità di intervenire di nuovo sulle proroghe. Sperando che questa volta l’intervento sia più uniforme e ragionato.