Un decennio di eurobond e perché non se ne è fatto ancora nulla

scritto da il 20 Aprile 2020

La questione del debito sovrano è diventata un problema sempre più impellente nel dibattito europeo, a partire dalla crisi che colpì duramente l’Ue negli anni 2008-2009. Alcuni Stati dell’Unione, come Italia, Portogallo e Grecia hanno ad oggi un rapporto Debito/Pil superiore al 120%. Questo rapporto in tempi di crisi economica tende a crescere velocemente, generando un tasso d’interesse elevato sul debito. I problemi causati da questi fenomeni all’economia nazionale sono ingenti, specialmente in presenza di una spesa pubblica non efficiente.

La crisi economica generata dal Covid-19 avrà delle ripercussioni importanti sulla spesa pubblica, come ha scritto Draghi nella sua lettera al Financial Times: “Il ruolo dello Stato è quello di disporre il proprio bilancio per proteggere i propri cittadini e l’economia contro gli shock che il settore privato non è capace di assorbire”. Come possiamo dedurre, questa crisi obbligherà gli Stati ad indebitarsi ulteriormente, e ciò potrebbe portare ad una insostenibilità del debito.

Come sono nati gli eurobond

Molti economisti si sono interrogati su come risolvere il problema del debito sovrano, in maniera tale da creare un’economia più stabile all’interno dell’Unione. La proposta di cui parliamo in questo articolo considerava l’istituzione di eurobond, garantiti dalle istituzioni Ue.

L’idea venne esposta per la prima volta nel maggio 2010 dagli economisti Jakob von Weizsäcker e Jacques Delpla, accendendo il dibattito sugli eurobond. La proposta considerava di separare i debiti sovrani in due parti. La prima parte, uguale al 60% del Pil, sarebbe stata acquistata e garantita dai paesi dell’Unione. Questa parte del debito viene definita “Blue Bond”, una forma di debito estremamente sicura e liquida. In questo modo sarebbe stato possibile mantenere un tasso d’interesse molto basso per il debito corrispondente al 60% del Pil.

La seconda parte, denominata “Red Bond”, è uguale al debito eccedente il 60% del rapporto ed è di responsabilità nazionale. Questa percentuale di debito eccedente ha l’obiettivo di incentivare maggiormente i Paesi al controllo della propria spesa. Il rischio del debito sovrano è interamente sopportato dai “Red Bond”, quindi il tasso d’interesse viene definito interamente dal mercato. La proposta considerava di tenere il debito “Red” lontano dal sistema bancario e non è compreso nelle operazioni di rifinanziamento della Banca Centrale Europea. In questo modo ci sarebbero stati due diversi elementi del debito sovrano, con due scopi differenti. I Blue bond avrebbero reso più stabili i tassi d’interesse dei Paesi, annullando lo spread per la parte coperta da questo strumento. I Red bond avrebbero permesso ai Paesi di agire attraverso politiche fiscali a proprio rischio; in questo modo ogni Paese sarebbe stato responsabilizzato per le proprie politiche fiscali.

Seguendo questa idea, l’Unione si sarebbe avviata verso un’unione fiscale (anche se parziale) e una maggior condivisione del rischio sul debito. Questo avrebbe comportato un maggior controllo della Commissione Europea sulle politiche fiscali dei singoli Stati. Questo modello avrebbe garantito una protezione dalla speculazione, presentando tuttavia alcune criticità. Tra queste risiede una disparità di trattamento tra i Paesi altamente indebitati che avrebbero goduto di un tasso d’interesse agevolato, mentre i Paesi virtuosi avrebbero visto lievitare i loro tassi.

Reazione agli eurobond

L’idea degli eurobond lanciata dai due economisti fu subito accolta con grande favore nei Paesi mediterranei, che già allora avevano un debito pubblico in media più alto di quello nordico. L’appoggio italiano era bipartisan: nell’agosto del 2011 Tremonti, allora Ministro dell’Economia del governo Berlusconi IV, definì gli eurobond «la soluzione maestra», e due settimane dopo arrivò la proposta di Romano Prodi (PD), che insieme all’economista Quadrio Curzio riprese l’idea.

A novembre, la Commissione guidata da José Barroso (PSE) annunciò che li avrebbe presi seriamente in considerazione, e pubblicò un green paper di studio sull’argomento. Un ruolo chiave lo giocarono i liberali di ALDE (oggi RE), che in sede europea fecero pressioni per l’adozione di questo strumento di finanziamento del debito. A bloccarli fu una levata di scudi che oggi suonerà familiare: Germania, Olanda e Austria guidarono il fronte che non voleva assolutamente la condivisione del debito. Come leader di questo schieramento emergeva chiaramente Angela Merkel (PPE), la cancelliera tedesca. L’impasse fu insuperabile perché l’emissione di eurobond richiedeva (e richiede tuttora) la revisione dell’art.125 del Trattato di Lisbona, una revisione impossibile a farsi senza il voto favorevole del Consiglio Ue, dove Germania e alleati avrebbero sicuramente posto il veto.  Il 15 febbraio 2012 la proposta arrivò al Parlamento Europeo, che approvò a larga maggioranza (515 favorevoli, 125 contrari e 52 astenuti) una risoluzione sulla «realizzabilità dei safety bonds», come erano diventati nel frattempo conosciuti: a votare a favore erano stati in massima parte popolari, socialisti, verdi e liberali, assieme a qualche franco tiratore che nel Parlamento Europeo è più la norma che l’eccezione. Dopo questo voto, però, la discussione si arenò, non essendosi trovato un accordo con il fronte contrario, nonostante i tentativi di compromesso e depotenziamento guidati dal leader dei liberali, Guy Verhofstadt. Lo stesso Verhofstadt il 29 febbraio scriveva un esasperato appello sul Financial Times, dicendo che gli eurobond erano «una soluzione più semplice ed efficace» ma constatando che «non si è più vicini a una soluzione di quanto non lo si fosse nel dicembre del 2009».

La strada era già stata tracciata, del resto, nell’agosto 2011, quando Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, allora premier repubblicano francese, avevano comunemente deciso di abbandonare la strada dei bond condivisi. Si erano invece accordati per promuovere il Fondo Salva-Stati (antenato del Mes) e per gettare le basi di quelle regole che sarebbero state poi consolidate nel Fiscal Compact. Il Mes veniva ratificato dal Senato italiano a larga maggioranza nel luglio del 2012: poco più di un mese più tardi Prodi tornava alla carica, rilanciando l’idea degli eurobond. Il suo appello, però, era destinato a rimanere inascoltato.

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Gli eurobond oggi

La situazione che si propone oggi è facile da comprendere, e non troppo dissimile da quella che si era presentata allora. Se la marcata divisione è stata in passato tra i Paesi mediterranei, con un debito molto forte, e quelli dell’Europa centrale e settentrionale, con debiti molto più contenuti, l’emergenza rappresentata dal Covid-19 sembra aver smosso gli animi. Una più ampia coalizione si è riunita attorno a Giuseppe Conte, che oggi è il principale promotore dei titoli condivisi. L’Olanda rimane ferrea nel suo rifiuto, ma questa volta la Francia acconsente e anche il nein tedesco sembra vacillare: tanto che l’economista Carlo Cottarelli si spinge a dire che «possiamo andare avanti senza Olanda».

Questa volta, però, l’Italia non è unita. Di fronte alla sessione plenaria del Parlamento Europeo tenutasi giovedì 16 aprile, infatti, il gruppo dei Verdi ha lanciato un emendamento su una risoluzione congiunta  per richiedere la mutualizzazione del debito futuro tramite recovery bond garantiti dal bilancio dell’Unione Europea. Lega e Forza Italia hanno votato contro l’emendamento, contribuendo ad affossarlo (326 contrari, 282 favorevoli all’emendamento 15), mentre gli altri eurodeputati italiani (con l’eccezione di Italia Viva) hanno votato a favore. La medesima maggioranza ha però ottenuto l’approvazione dei recovery bond nel voto di venerdì 17 aprile, in una risoluzione non vincolante che è stata approvata con 395 voti favorevoli e 171 contrari. Con qualche piccola differenza formale, comunque, entrambe le votazioni riguardavano strumenti simili: i recovery bond sono in tutto e per tutto degli eurobond. Inoltre, entrambe le proposte riguardavano la mutualizzazione del debito futuro, non di quello preesistente.

Certo l’introduzione degli eurobond non è un’operazione che si possa fare da un giorno all’altro, sia per le modifiche dei trattati fondanti necessarie, sia per i tempi richiesti dallo sviluppo di questi strumenti. La lunga storia degli eurobond però, che sembrava ormai bloccata per sempre in un vicolo cieco, oggi torna a vedere un po’ di luce.

Testo a cura di Lorenzo Torri e Ennio Maresca

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